“Dio lo ha messo a custodia della sua famiglia”

San Luis, Argentina, 1 marzo 2019.

Lettera Circolare 32/2019

“Dio lo ha messo a custodia della sua famiglia”

Redemptoris Custos, 8

Cari Padri, Fratelli, Seminaristi e Novizi,

Come ben sapete, il 19 di questo mese celebreremo la solennità di San Giuseppe, custode dei tesori più preziosi di Dio Padre: il Verbo Incarnato e la sua Santissima Madre. Questa festività fu introdotta da Papa Sisto IV nel calendario della chiesa di Roma a partire dall’anno1479. Nel 1621 fu inserita nel calendario della Chiesa Universale. 

Questa solennità, di lunga tradizione in tutta la chiesa, c’interessa particolarmente da vicino per vari motivi: sia perché il ramo femminile del nostro Istituto –le Suore Serve del Signore e della Vergine di Matará– fu fondato il 19 marzo 1988; sia per gli innumerevoli favori che questo beato Santo ci ha concessi e dai grandi pericoli dai quali ci ha liberati. Ma principalmente perché Giuseppe di Nazaret ‘partecipò’ del mistero dell’Incarnazione del Verbo come nessun’altra persona, eccetto María, la Madre del Verbo Incarnato. 

San Giuseppe fece “della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero della incarnazione e alla missione redentrice che è unita a lui” e il suo esempio è particolarmente eloquente per ognuno di noi, chiamati a “vivere in tutta la sua profondità il mistero del Verbo Incarnato” . In effetti, la nostra vocazione implica la donazione generosa al servizio di Gesù Cristo, l’unico Re che merita di essere servito, e l’impegno nel dolcissimo ufficio di amare la Madre di Dio, di onorarla, di godere e soffrire con Lei, di lavorare, pregare e riposare con Lei, precisamente come fece San Giuseppe. 

Allo stesso modo, questo Santo Patriarca è onorato come il “capo e difensore della Sacra Famiglia” . Dato che siamo uomini come lui e membri di una Famiglia Religiosa, l’insigne esempio dello Sposo della Madre di Dio s’innalza eccelso davanti a noi, poiché anche noi abbiamo il compito, qualificato e prioritario, d’informare dello spirito genuino della nostra famiglia tutti i suoi membri –le religiose Servidoras e imembri del Terz’Ordine- salvaguardando assolutamente e con grande fedeltà il Patrimonio dell’Istituto.  

Per questo, con la presente lettera circolare vorrei illustrare il posto eminente –dopo quello della Vergine Maria– che l’esempio degnissimo di San Giuseppe occupa per ogni membro della nostra Famiglia Religiosa specialmente nel suo ruolo di servizio al mistero dell’Incarnazione- manifestato particolarmente nella sua fede e nella sua totale docilità alla volontà divina e, in seguito, l’esempio senza pari che ci offre come capo  famiglia.

1. San Giuseppe fece

L’Angelo Gabriele fu inviato da Dio in una città della Galilea chiamata Nazareth, a una vergine data in sposa a un uomo chiamato Giuseppe, della casa di Davide; il nome della vergine era Maria. 

Con queste parole San Giuseppe è presentato dall’evangelista San Luca come sposo di Maria, e così è introdotto da Dio nel mistero della maternità di Maria e pertanto nel disegno salvifico dell’Incarnazione. 

E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi. Questo fu il  mistero di Maria. Giuseppe non conosceva questo mistero. Ma poiché era buono e non voleva denunciarla, decise di ripudiarla in segreto. In quel momento Giuseppe, sposo di María, riceve la “sua annunciazione” , dicendo all’angelo nei suoi sogni: non temere di ricevere nella tua casa casa Maria, perché colui che è stato generato in lei viene dallo Spirito Santo

E continua a dire l’Evangelista San Matteo: Risvegliando Giuseppe dal suo sonno, fece come l’angelo del Signore le aveva comandato. In queste poche parole si trova tutto. Tutta la decisione della vita di Giuseppe e la piena caratteristica della sua santità. San Giuseppe “fece”. Quest’uomo di grande nobiltà di cuore e dotato di una particolare fiducia, fece. La semplicità del Vangelo ci lascia intravdere la disponibilità della volontà di San Giuseppe per fare ciò che Dio chiedeva, per accettare i piani di Dio anche se era incapace di comprenderli totalmente per il fatto di essere un così grande mistero. A tal punto che il Magistero dichiara che agendo in questo modo San Giuseppe dimostró “una disponibilità di volontà, simile a quella di Maria”.  Da questo, senz’altro, possiamo dedurre che San Giuseppe fu un uomo d’azione. 

Ciò che lui fece fu una genuina “obbedienza della fede”, afferma San Giovanni Paolo II. Giacché San Giuseppe accettó come verità proveniente da Dio ciò che la Vergine Maria aveva già accettato nell’annunciazione e immediatamente fece ciò che si chiedeva da lui. È così che Giuseppe di Nazareth si trasformò in depositario del mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio insieme alla Vergine Maria, una volta che gli fu affidato il sublime compito di essere padre terreno rispetto al Figlio di Maria. Per questo il padre putativo del Redentore è per tutti un modello di vita della e nella fede. 

San Giuseppe, credendo con fede vivissima alla Parola di Dio, visse il mistero dell’Incarnazione in una maniera singolarissima essendosi fatto Sposo della Madre di Dio e padre adottivo del Figlio di Dio. Ancor più, a tale mistero consacrò il resto della sua vita. 

In lui troviamo un uomo –autentico erede della fede di Abramo– che guarda al futuro con fede e coraggio, che non segue i propri progetti, ma che si affida all’infinita misericordia di Colui che guida gli eventi della storia secondo il suo misterioso disegno salvifico, e messa la sua fiducia nel solo Dio, compie con esattezza la sua missione. 

La discerzione con la quale San Giuseppe svolse la sua missione –nel silenzio e nella semplicità della vita quoridiana– fa risaltare ancor più la sua fede che consisteva nel mettersi sempre in ascolto del Signore, cercando di capire la sua volontà, per compierla con tutto il suo cuore e con tutte le sue forze. Per questo, il Vangelo lo definisce un uomo giusto

Quanto dobbiamo imparare da San Giuseppe, che seguendo con volontà ferma i disegni di Dio offrì tutta la sua vita al servizio di Cristo e della sua Santissima Madre, perché come dice l’Apostolo: la fede senza le opere è morta!

Similmente, professando i nostri voti in questa Famiglia Religiosa abbiamo consacrato la nostra vita all’augusto mistero dell’Incarnazione del Verbo; mistero “che è più grande della creazione del mondo e che non può essere superato da nessun altro”. Pertanto, anche da noi si richiede una fede solida, intrepida, eminente, eroica; piena di prontezza; piena di ardente zelo nel propagarla, senza amarezze né asprezze. 

San Giuseppe non conosceva i cammini per i quali lo avrebbe portato l’accetazione dei progetti di Dio. Così, per esempio, non avrebbe mai immaginato di dover fuggire dall’Egitto con il bambino e sua Madre perché Erode avrebbe cercato il bambino per ucciderlo; né i lavori e le pene che avrebbe dovuto affrontare per provvedere alla sua famiglia; nè la sua rinuncia al naturale amore coniugale per un incomparabile amore verginale. In ogni caso, San Giuseppe –uomo di grande fede– non dubita a “mettere subito a disposizione dei disegni divini la sua libertà, la sua legittima vocazione umana, la sua fedeltà coniugale, accettando dalla famiglia la sua condizione propria, con tutta la sua responsabilità e il suo peso”. 

Questa è l’avventura della fede. “Per la fede l’uomo si dona interamente e liberamente a Dio”. Per questo la fede si distingue da tutte le altre grazie e la si onora come il mezzo della nostra giustificazione, giacché la sua presenza nell’anima implica un cuore disposto all’avventura. 

Oggi, allo stesso modo in cui un giorno fece con San Giuseppe, con i suoi apostoli e lungo tutta la storia con ogni anima, Dio dirige lo stesso invito a ognuno di noi e al nostro Istituto per bocca della Sacra Scrittura rispecchiata nel diritto proprio: dobbiamo vivere della fede. Mossi da questa fede e spinti dall’augusto esempio di San Giuseppe dobbiamo “realizzare grandi opere, imprese straordinarie dove c’è molto di avventura, di vertigine, di pericolo”. 

Quando Giacomo e Giovanni chiesero a Cristo il dono di stare vicini a Lui nella vita eterna, Egli rispose loro: Potete bere il calice che devo bere Io, o ricevere il battesimo che Io devo ricevere? . Cioè, Gesù ricordò loro che dovevano avventurarsi, ed essi risposero con un fermo: Possiamo

 “Ecco, allora, la grande lezione: il nostro dovere come cristiani si fonda su questo, nell’intraprendere avventure per la vita eterna senza la certezza assoluta del successo”, come diceva il beato John Henry Newman.

“Se la fede è l’essenza della vita cristiana, […] dobbiamo rischiare, basati sulla parola di Cristo, ciò che abbiamo per ciò che non abbiamo; e farlo in maniera nobile, generosa, senza durezza e nemmeno alla leggera, e ancora senza sapere con precisione ciò che stiamo facendo, senza sapere nemmeno ciò a cui rinunciamo, e nemmeno ciò che guadagneremo; incerti riguardo alla nostra ricompensa, incerti riguardo alle dimensioni del sacrificio che si chiede da noi, e in tutti gli aspetti riguardanti Lui, sperando in Lui, confidando in Lui per il compimento della Sua promessa, confidando in lui per poter compiere i nostri voti, e così, sotto ogni aspetto, andare avanti senza preoccupazione o ansia per il futuro” .

In questi momenti, per un disegno provvidenziale e misericordioso di Dio, il nostro Istituto si trova in una fase in cui sta intraprendendo grandi progetti che esigono da noi questo avventurarsi a partire dalla fede per la maggior gloria di Dio e la salvezza delle anime, il che implica –come capirete– non poco sacrificio da parte di tutti e un grande spirito di fede. 

Ma questo è ciò che ci caratterizza: “agire con docilità e prontezza nella esecuzione di ciò che chiede lo Spirito Santo”, come fece la Santissima Vergine, come fece il suo castissimo sposo San Giuseppe; “lavorando sempre contro la paura del sacrificio e della donazione totale e contro la tentazione di recuperare ciò che abbiamo dato”. Per questo il diritto proprio ci avverte esplicitamente affinché non cadiamo nella tentazione di agire con questo atteggiamento da “funzionari” che tanto impedisce e ritarda questo santo avventurarsi per Cristo . Pertanto, possiamo essere oggi e sempre come San Giuseppe “uomini d’azione, di ampie vedute, dal cuore deciso e generoso, che per la nobiltà delle nostre anime sorridiamo allegramente sapendo che Gesù stesso ci dice Duc in altum! ed è Lui che ci spinge a grandi ideali”. 

“La fede” –diceva il Venerabile Arcivescovo Fulton Sheen– “essendo un abito, cresce per la pratica. L’ideale è che arriviamo a un punto di questa pratica, in cui, come nostro Signore sulla Croce, diamo testimonianza anche in mezzo all’abbandono e all’agonia di una crocifissione”. In questa pratica della fede, il religioso missionario del Verbo Incarnato –sia questo sacerdote, monaco, fratello– dev’essere sempre disponibile al compimento della volontà di Dio, dovunque lo porti la Provvidenza Divina e qualunque sia l’ufficio che la sua Bontà voglia affidargli o togliergli. Bisogna anche essere disposti a venire cambiati di luogo e mandati come San Giuseppe, fra privazioni e senza previo avviso, in un paese sconosciuto: Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto; e rimanete lì finché ve lo dirò… [E San Giuseppe], prese il bambino e sua Madre e si ritirò in Egitto; e restò lì fino alla morte di Erode; perché ciò che ci caratterizza è la “disponibilità per il servizio della Chiesa. 

Una delle grandi grazie che abbiamo ricevuto nella nostra formazione è la disposizione ad essere sempre pronti ad andare –a richiesta dei superiori- in qualunque parte del mondo sia necessario. Di fatto, è molto consolante percepire come queste disposizioni si mantengono nell’immensa maggioranza dei nostri religiosi in modo ammirevole, senza che li spinga di più andare in un posto piuttosto che in un altro, lasciando la propria destinazione totalmente e con grande libertà in mano al superiore. È sempre buono riflettere su questo, e alimentare questa prontezza e disponibilità dell’anima alla missione, soprattutto per quelli che potrebbero pensare di essere indispensabili nella missione nella quale si trovano o per chi si è “abituato” a uno stile di vita che gli risulta difficile lasciare indietro, e adottano un atteggiamento che mette in difficoltà i superiori quando questi presentano loro nuovi destini. Molte volte, già dai tempi del Seminario, abbiamo sentito che la nostra vita –consacrata a Dio e impegnata sotto voto all’avventura missionaria– è come ‘far firmare a Dio un foglio in bianco’ il che significa tenere l’anima pronta a tutto ciò che Dio disponga. Pertanto, conviene “lasciare da parte ogni spirito d’interesse particolare e personale ed essere disposti ad affrontare qualunque sacrificio o scomodità per il bene dell’Istituto” e per il bene della Chiesa, sapendo che Dio non si lascia mai vincere in generosità. 

San Giuseppe fece “dono totale di sé, della sua vita e del suo lavoro; trasformando la sua vocazione umana all’amore domestico con l’oblazione sovrumana di sé, del suo cuore e di ogni capacità, nell’amore posto al servizio del Messia, che cresceva nella sua casa

A imitazione del Giusto Custode del Redentore, ognuno di noi deve vivere “la festa continua nell’anima di immolarsi –in maniera reale ogni giorno – per amore” al Verbo Incarnato e alla sua Santissima Madre, che è anche nostra. 

Analogamente a San Giuseppe, noi abbiamo lo splendido privilegio di essere stati chiamati a far parte della Famiglia del Verbo Incarnato”. Nella nostra Famiglia Religiosa, come nella Sacra Famiglia, tutto è per Lui, attraverso di Lui e per la causa degnissima del suo regno. Per Lui dobbiamo lavorare, vivere e morire. “Talenti e virtù, qualità e sacerdozio, tutto deve convergere nel meraviglioso servizio al Verbo Incarnato”. Come San Giuseppe, anche noi siamo religiosi del Verbo Incarnato per dare tutto ciò che abbiamo e tutto ciò che siamo. Il fine primario della nostra vocazione è precisamente realizzare con maggior perfezione tutto ciò che sia per il suo santo servizio e come membri della sua famiglia acquisire il suo stile, vivere in grande intimità e godere d’ineffabile familiarità con Lui. Deve dirsi di ognuno di noi ciò che si diceva del Custode del Redentore, cioè, che fece “della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice unita a Lui”. 

Un religioso che non mette ordine nella sua affettività –cioè che non “sacrifica gioiosamente i suoi affetti carnali donandosi a Gesù Cristo e ordinando a Lui ogni amore”–, che vuole essere amato dagli altri in modo egoista, che vuole essere al centro dell’attenzione e, piuttosto che servire, cerca la propria comodità e di essere servito, che s’impossessa del prossimo non solo cercando affetto in modo disordinato ma volendo esercitare orgogliosamente il suo dominio –peggio ancora se si tratta di superiori– che fa preferenza di persone circondandosi di soggetti che evidentemente non sono né i più adatti né i migliori, ma che solamente fanno gli adulatori e non contraddicono mai, che non sopporta il più live diprezzo o correzione –anche se ha ragione– ecc. non è un religioso, perché dimostra con le opere che non gli basta Gesù Cristo, e pertanto non si può dire che sia un vero religioso anche se compie perfettamente –il che è abbastanza strano– tutte le prescrizioni ‘materiali’ della vita religiosa. Tale religioso sarà una ‘menzogna vivente’, la sua vita un fallimento, tutto gli sarà difficile e insopportabile. Non possiederà il gaudio ineffabile di quelli che sperimentano in sé stessi l’amore di Cristo, un amore che include l’allegria della croce.

Noi dobbiamo, sull’esempio di Giuseppe il Giusto, agire mossi dalla carità, senza lasciarci turbare dalle difficoltà del cammino; in modo tale che rifulga in noi la magnanimità e la fortezza, per iniziare grandi opere al servizio di Dio e perseverare fino alla fine nella loro realizzazione, soffrendo le  debolezze di molti, senza tirarsi indietro a causa di raggiri o minacce e mantenendosi al di sopra dell’alternanza di successi e fallimenti, avendo l’anima disposta a subire la morte, se fosse necessario, per il bene dell’Istituto e della Chiesa al servizio di Gesù Cristo. 

2. San Giuseppe: capo e difensore della Sacra Famiglia

Il nostro caro San Giovanni Paolo II, in varie occasioni si è riferito a San Giuseppe come “capo della casa, capo della famiglia”. 

Poiché già da 130 anni la Chiesa insegna esplicitamente che nella doppia dignità di cui gode San Giuseppe, cioè, per il fatto di essere sposo di Maria e padre terreno del Verbo Incarnato, “seguì l’obbligo di natura che lo metteva a capo della famiglia, in maniera che Giuseppe, nel suo momento, fu il custode legittimo e naturale, capo e difensore della Sacra Famiglia. Durante l’intero corso della sua vita egli compì pienamente questi obblighi e queste responsabilità. Egli si dedicò con grande amore e quotidiana sollecitudine a proteggere la sua sposa e il divino infante; regolarmente ottenne, per mezzo del suo lavoro, ciò che era necessario per l’alimento e il vestito di entrambi; scampò il Bambino dalla morte quando era minacciato dalla gelosia di un monarca, e gli trovò un rifugio; nelle miserie del viaggio e nelle amarezze dell’esilio fu sempre la compagnia, l’aiuto e l’appoggio della vergine e di Gesù. Allora, il divino focolare che San Giuseppe amministrava con l’autorità di un padre conteneva in sé la Chiesa nascente

Pertanto, questa specialissima dignità di San Giuseppe lo costituì capo di famiglia e mise grandissime responsabilità sulle sue spalle, con tutto il lavoro e le esigenze che ciò implicava.    

In ogni caso, “quando la grazia divina sceglie qualcuno per un ufficio singolare o per metterlo in uno stato di predilezione, gli concede tutti quei carismi che sono necessari al ministero che la suddetta persona deve svolgere. Questa regola si è verificata in modo eccellente in San Giuseppe, che fece le veci di padre del Signore Nostro Gesù Cristo e che fu vero sposo della Regina dell’universo e Signora degli angeli”.

In effetti, questo terreno trovò grazia nell’anima di San Giuseppe e diede frutti copiosi in virtù che abbellirono ancora di più la magnifica vita familiare della Sacra Famiglia. 

Per questo San Bernardo dice splendidamente: “In Giuseppe, il Signore trovò, come in Davide, un uomo secondo il suo cuore , al quale poté confidare in tutta sicurezza, il segreto più grande del suo cuore. Gli rivelò i segreti più profondi della sua Sapienza , gli rivelò meraviglie che nessun principe di questo mondo ha conosciuto; infine, gli permise di vedere ciò che tanti re e profeti desiderarono vedere e non videro, e udire ciò che molti desiderarono udire e non udirono . E non solo vederlo e udirlo, ma portarlo nelle sue braccia, condurlo per mano, stringerlo sul suo cuore, abbracciarlo, nutrirlo e proteggerlo”. 

San Giuseppe conobbe la rudezza del lavoro e trattò con la carità più squisita le persone più adorabili che qualcuno potesse trattare; con grande generosità portò su di sé il peso della responsabilità della famiglia e della casa; custodì e difese i suoi cari con paterna sollecitudine e vigilanza; conobbe i pericoli delle minacce dei potenti, la perplessità e l’incertezza, la stanchezza e le peripezie dei viaggi, e soprattutto seppe essere un uomo virtuoso. In lui vediamo rifulgere la pratica di quelle virtù apparentemente opposte delle qauli parla il diritto proprio: “giustizia e amore, fermezza e dolcezza, fortezza e mansuetudine, santa ira e pazienza, purezza e grande affetto, magnanimità e umiltà, prudenza e coraggio, allegria e penitenza, ecc.”.

Nella sua relazione con Gesù possiamo dire che “dall’esempio forte e paterno di San Giuseppe, Gesù imparò le virtù della pietà maschile, la fedeltà alla parola data, l’integrità e il duro lavoro. Nel carpentiere di Nazareth vide come l’autorità messa al servizio dell’amore è infinitamente più feconda del potere che cerca di dominare. Quanto ha bisogno il nostro mondo dell’esempio, della guida e della forza serena di uomini come San Giuseppe!”.  

Allo stesso modo, come sposo della Vergine di Nazareth fu suo appoggio, suo compagno di vita e testimone della sua verginità. Si prese cura delle sue necessità temporali e con squisita carità provvide anche ai semplici ‘lussi’ o comodità che lo stile di vita di quel tempo e la sua posizone sociale povera permetteva in qualche occasione. Però dobbiamo anche dire che San Giuseppe esercitò sulla Vergine Madre la mansueta e dolce autorità di uno sposo sollecito per il benessere e la felicità della sua Sposa. Per questo San Giuseppe è anche il nostro perfetto modello per esercitare l’autorità tale come la chiede il diritto proprio: sempre posta al servizio della fraternità, della sua edificazione e del conseguimento dei suoi fini spirituali e apostolici;

una autorità spirituale; gli misero il nome di Gesù, lo stesso che gli fu dato dall’angelo (ufficio che corrispondeva all’autorità paterna); un’autorità creatrice di unità: Non temere di ricevere in casa Maria, tua sposa; una autorità che sa prendere decisioni e garantisce la loro esecuzione:

prese il bambino e sua madre e si ritirò in Egitto

Sarebbe impossibile anche solo pensare che San Giuseppe volesse dissociarsi dalla sua famiglia di fronte alle minacce, ai pericoli, alla povertà, all’avversità delle circostanze, alle esigenze del lavoro arduo per mantenerli e per prendersi cura di loro. Al contrario, San Giuseppe visse realmente consacrato a procurare con amorevole sollecitudine ed eroica fedeltà la felicità di quelli che Dio gli aveva raccomandato. 

Per questo, l’insigne figura di San Giuseppe, Uomo Giusto, sposo castissimo della Vergine Maria e custode del Verbo Incarnato, continua a essere per tutti noi missionari religiosi –che siamo uomini come lui– un esimio modello della virtù propriamente virile e paterna nella vita familiare. In effetti, anche noi siamo membri di una preziosa Famiglia Religiosa “fatta di sacerdoti, religiosi consacrati con voti perpetui anche se non sacerdoti, e religiose”. E chiarisce il diritto proprio: “La relazione fra questi gruppi dev’essere fraterna, e anche paterna nel caso dei sacerdoti rispetto agli altri. [Giacché] in virtù del sacramento dell’Ordine, i sacerdoti si rendono partecipi del mistero di Cristo, Sacerdote, Maestro, Capo e Pastore […]. [Pertanto, come] rappresentanti di Cristo in quanto capo, hanno il triplice ufficio di governare, insegnare e santificare il popolo di Dio”. 

Ogni membro della Famiglia Religiosa –anche le suore Servidoras secondo il debito ordine e grado, perché insieme a loro “formiamo una stessa Famiglia Religiosa con un identico fine specifico”– devono esercitare tale sollecitudine amorevole per il bene vero e duraturo di ognuno dei membri dei nostri Istituti, cercando in tutto di promuovere la coesione, la sua crescita, e la promozione dei suoi interessi, specialmente attraverso la salvaguardia del patrimonio dell’Istituto e il conseguimento del suo fine. Tale interesse, promosso anche a costo di sacrifici personali e che è desiderabile in tutti, non deve assolutamente mancare nei nostri sacerdoti con la sua specificità propria, poiché per ufficio siamo chiamati a essere capi e pastori. In maniera propria si applica ai sacerdoti ciò che il Magistero dice di San Giuseppe: “Dio lo ha messo a custodia della sua famiglia”.

Dobbiamo sempre tener presente che Cristo ci ha chiamati individualmente ma per formare una famiglia, la Famiglia Religiosa del Verbo Incarnato. Il nostro Istituto, insieme alle Suore Serve del Signore e della Vergine di Matará e ai numerosi membri del Terz’Ordine sparsi in tutto il mondo, è nella Chiesa una Famiglia spirituale peculiare, con la stessa spiritualità e la stessa missione, per aiutarci mutuamente nel compimento della vocazione personale. Così Dio ci ha pensati ed è questa la nostra identità. Pertanto, la nostra sequela di Cristo si vive in fraternità. Cioè, con spirito di corpo. 

Quest’appartenenza a una Famiglia Religiosa implica, fra le altre cose, agire sempre come famiglia e mostrarci sempre come famiglia.

Semplicemente perché la nostra vocazione di religiosi del Verbo Incarnato richiede di vivere come famiglia: “Amare la vocazione è amare il proprio Istituto e sentire la comunità come la propria vera famiglia. Amare secondo la propria vocazione è amare secondo lo stile di chi, in ogni relazione umana, desidera essere chiaro segno dell’amore di Dio, non sottomette nessuno né cerca di possederlo, ma vuole bene all’altro e vuole il bene dell’altro con la stessa benevolenza di Dio”. E ciò che si dice della vita in ognuna delle nostre comunità, si estende alla relazione con le Suore Servidoras e con il Terz’Ordine, secondo il dovuto ordine e il giusto mezzo. 

Per questo, agire come Famiglia Religiosa non è altra cosa se non l’azione costante e fedele di ognuno dei suoi membri secondo la grazia particolare del nostro Istituto, parte essenziale del carisma, in modo tale che tutti quelli che ci vedono ci riconoscano per questo stile caratteristico e particolare del Verbo Incarnato. Questo agire come famiglia richiede inoltre unità di criteri, per cui è necessaria la buona comunicazione, che contribuisce al comune senso di responsabilità. “La comunicazione crea normalmente relazioni più strette, alimenta lo spirito di famiglia e la partecipazione a tutto ciò che riguarda l’intero Istituto, sensibilizza di fronte ai problemi generali e unisce di più le persone consacrate intorno alla missione in comune”. 

Tutto questo porta a un servizio generoso e disinteressato alla missione ispirato alla comunione nello stesso carisma. Questo si manifesta, fra le altre cose, lottando insieme per l’impegno missionario, dando priorità alle opere della Famiglia Religiosa, sapendosi sacrificare nel proprio posto affinché l’Istituto possa compiere opere di maggiore portata, mostrandosi vicini e pronti ad aiutare, restando sempre disponibili a dare una mano, ecc. In una parola, vivere il magis e il duc in altum della follia della croce.

E se ciò che è stato detto dev’essere il corso ordinario della nostra condotta, ciò diviene particolarmente significativo se si considera il momento cruciale che sta attraversando la nostra Famiglia Religiosa. La cosa importante è lavorare in un progetto comune, dando la priorità alle opere della famiglia e agli apostolati propri potenziandoli con grande energia e magnanima generosità, infervorandoci insieme per quegli apostolati di maggiore ingerenza nell’evangelizzazione. L’esperienza attesta -ed è evidente in numerosissime imprese apostoliche- che il lavoro congiunto di tutti i membri –ramo femminile, maschile e Terz’Ordine– dà una grande forza alla nostra Famiglia Religiosa, le dà un’incisività che in altro modo forse non avrebbe  e che oltre a sostenere e rinforzare grandemente la vita e la missione di tutta la nostra Famiglia, diventa una fiumana di benedizioni che ci unisce ancor più fortemente.

Dio si è compiaciuto di concederci la grande grazia e il gran privilegio di associare all’Istituto le Suore Servidoras e i membri del Terz’Ordine con lacci indissolubili, se vogliamo essere fedeli al carisma  e al patrimonio del nostro Istituto. Pertanto, il nostro dovere è mostrarci come Famiglia Religiosa e, santamente orgogliosi di lei, testimoniare davanti al mondo quello che siamo.

Dio avrebbe potuto mandarci in missione, e niente di più, come ha fatto con tantissime congregazioni maschili. Ma per maggiore manifestazione della sua magnificenza e secondo la sua insondabile benevolenza ci ha dato nel secondo e nel Terz’Ordine dei preziosi baluardi per aiutarci nella nostra santificazione e nel sublime compito dell’evangelizzazione. 

Per questo noi, come sacerdoti, dobbiamo fare in modo che le Suore siano dove noi siamo ed essere solleciti ad assisterle con il dovuto distacco e rispetto. E dove si trovano già, saperle fare partecipi della missione, perché le suore non sono un gruppo in più nella parrocchia o nelle nostre opere, ma parte integrante della nostra Famiglia. 

Di fatto, mostrarci sempre come Famiglia non consiste semplicemente nell’’organizzare’ feste o grandi eventi insieme (il che è già una gran cosa che non si deve perdere), ma piuttosto, nel mostrarci uniti nelle imprese missionarie, sapendo essere di appoggio gli uni agli altri giorno dopo giorno nella missione, agendo sussidiariamente, condividendo le cariche secondo il ruolo che a ognuno corrisponde in questa preziosa Famiglia, dissimilunado con carità le miserie e i limiti che abbiamo tutti, dimostrando questa tendenza a mostrare affabilità e compassiva sollecitudine prima di chiunque altro, rallegrandoci delle gioie e dei successi degli altri, lavorando con grande fiducia e sapendo armonizzare responsabilmente i nostri servizi alla causa dell’evangelizzazione, difendendoci l’un l’altro come in un unico fronte di battaglia, negandosi e sacrificandosi per il bene comune e la properità della Chiesa e della Congregazione.  

Lungi assolutamente da noi l’egosimo, il particolarismo, lo spirito di opposizione e sfiducia, lo spirito riservato, di non partecipazione, di dissenso, la competitività immatura, il ‘fare da soli’, la critica scoraggiante, perché tutto ciò attenta gravemente contro lo spirito di famiglia che deve regnare fra di noi.  

piuttosto, conviene molto affezionarsi della propria Famiglia, occuparsi dei suoi interessi, che sono quelli di tutti, dare alla nostra famiglia il posto prioritario che le si deve dare, lavorare affannosamente sotto lo stesso stendardo e sapere costruire in unità, precisamente come insegna l’esempio di Giuseppe il Giusto. Agire in altro modo non solo sarebbe contrario allo spirito che ci è stato dato, ma anche causa di molti ostacoli, e toglierebbe molta forza alla nostra missione nella Chiesa. Così ci avverte il diritto proprio: “non considerare sufficientemente il carisma della Famiglia Religiosa non fa bene né alla Chiesa particolare né alla stessa comunità”. 

Già il Beato Paolo Manna lo diceva con grande realismo: “Ai nostri fratelli forse non abbiamo nulla da dare, ma possiamo sempre dar loro in grande abbondanza il nostro ottimismo, il nostro apprezzamento, il nostro incoraggiamento affettuoso […] La maggior parte dei disgusti che ci rendono la vita amara sono prodotti dall’imperfezione delle nostre relazioni con i fratelli; se invece, siamo tutti animati da questo profondo spirito di carità e di benevolenza, il fatto di vivere insieme e lavorare uniti per raggiungere i santissimi ideali del nostro Istituto sarà fonte di felicità”.

I padri Capitolari si pronunciavano in termini simili nell’ultimo Capitolo Generale dicendo: “Analogamente a come succede in una comunità e nello stesso Istituto, dall’unità e dalla colaborazione con le Servidoras seguono tanti beni per la Famiglia Religiosa e per la Chiesa, in uno spirito di Famiglia. Dobbiamo essere coscienti che il diavolo cercherà in ogni modo e con tutti i mezzi di attentare contro questo aspetto, più e più volte. Perciò dobbiamo assumere con serietà il combattimento spirituale per mantenere il buono spirito, per evitare coscienziosamente tutto quello che ferisce la giustizia o la carità, tutto ciò che potrebbe far nascere sospetti o difficoltà, tutto ciò che possa mettere cattivo spirito; essere capaci di far regnare la carità, che tante volte assume forme di misericordia e di perdono”. 

Certamente, nell’apostolato realizzato come Famiglia Religiosa –essendo uomini e donne limitati– naturalmente troveremo difficoltà e disillusioni. Ma di fronte a tutto questo, bisogna avere molta pazienza, carità, magnanimità e sforzarci sempre di praticare il saggio avviso di San Giovanni della Croce: “dove non c’è amore, metta amore, e otterrà amore”.  

Lasciate che lo dica in schiettamente: La nostra Famiglia Religiosa è un tesoro! e un grandissimo dono del cielo con il quale Dio ha voluto arricchire la sua Chiesa. Dobbiamo farlo fruttificare e così condividere con il mondo intero il capitale immenso del quale godiamo: il nostro magnifico carisma. Rendiamoci conto che il mondo ha bisogno della nostra testimonianza come Famiglia Religiosa. 

Sentiamo vivamente l’importanza del ruolo della nostra Famiglia Religiosa nella missione della Chiesa. Noi dobbiamo essere la “buona notizia” che a voce altissima proclama che il mondo non può essere trasformato se non secondo lo spirito delle beatitudini. Quanti beni ne seguono! Quante vocazioni! quante anime si sentono mosse dalla testimonianza del vero amore sacrificale per la famiglia di cui ha tanto bisogno il mondo moderno! 

Il bene che è in gioco è talmente grande che le nostre numerose miserie umane o il fatto di non essere corrisposti come avremmo sperato –come anche a volte succede–, devono farci desistere dal proposito di conservare, aumentare e perseverare nello spirito di famiglia. Perché Dio, como ha fatto anche con San Giuseppe, ha messo noi a cura della sua famiglia.

*     * *     * *

Radicati nel Verbo Incarnato, come la stessa Sacra Famiglia, sapendoci benedetti da Dio con un carisma splendido nel quale svolgiamo il nostro metodo di santificazione e apostolato più pieno, dobbiamo andare per il mondo come San Giuseppe: al servizio del Dio-Fatto-Uomo. 

Avvicinandosi il 35° anniversario di fondazione del nostro Istituto, chiediamo con gran fervore a “Giuseppe di Nazareth –colui che il Padre celeste ha voluto rendere, in terra, il suo uomo di fiducia”– che custodisca la nostra Famiglia Religiosa, così come in altri tempi s’impegnò a custodire il Redentore. Chiediamogli che la preservi sempre intatta nei suoi elementi essenziali, che la benedica con unità piena, costante e inalterabile fra tutti i suoi membri e che la moltiplichi ovunque. 

Voglia il Santo Sposo della Vergine Maria, che fu fedele fino alla fine alla chiamata di Dio, concedere a tutti inostri membri –presenti e futuri– la grazia della perseveranza nella nostra santa vocazione, mostrando come lui in tutte le circostanze della nostra vita che viviamo della fede nell’Incarnazione del Figlio di Dio. 

Impariamo con San Giuseppe a essere sempre più di Maria per essere ogni volta più di Gesù.

Vi mando un forte abbraccio,

P. Gustavo Nieto, IVE

Superiore Generale 

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