“L’amore alle anime, fino all’eroismo della dedizione senza riserve”

Roma, Italia, 1 agosto 2018.

Lettera circolare 25/2018

“L’amore alle anime, fino all’eroismo della dedizione senza riserve”

Costituzioni,182

Cari Padri, Fratelli, Seminaristi e Novizi,

A pochi giorni dal celebrare “con solennità” la trasfigurazione di nostro Signore, oggi vorrei inviarvi questa lettera circolare con il desiderio che serva per approfondire nell’anima la speranza certa del la gioia che noi dobbiamo portare “a tollerare le difficoltà” mentre camminiamo fervorosi nel conseguimento del nostro fine specifico: “evangelizzare la cultura, ossia trasfigurarla in Cristo”. Dunque questa è la nostra ragion d’essere nella Chiesa e l’ideale che sempre deve battere nel nostro petto.

Ben insegna il diritto proprio che la “Trasfigurazione non è solo la rivelazione della Gloria di Cristo, ma anche la preparazione per affrontare la croce”. Per questo un giorno abbiamo compromesso “tutte le nostre forze per inculturare il Vangelo” lavorando “in somma docilità allo Spirito Santo e nell’impronta di Maria, al fine di impadronirsi per Gesù cristo di tutto ciò che è autenticamente umano, anche nelle situazioni più difficili e nelle condizioni più avverse”.

Conseguentemente, “la scelta dei “posti di avamposto” nella missione” è arrivato ad essere dagli inizi uno degli elementi non negoziabili aggiunti al carisma ed una delle direttrici prioritarie nell’espansione del nostro caro Istituto. Lo dichiara lo stesso diritto proprio: “dobbiamo collaborare con tutti i mezzi alla nostra portata alla grande opera di propagazione della fede nel mondo infedele. […] pertanto, ci sembra indispensabile che il nostro Istituto abbia fondazioni in terre di missione. Dunque, il miglior modo di aiutare le missioni consiste, senza alcun dubbio, nell’offrire missionari.

Servano allora queste righe come omaggio ed espressione di sentito affetto a tanti dei nostri che avendo ascoltato la clamorosa chiamata del Verbo Incarnato Prendi il largo si sono disposti a morire, come il chicco di grano, per vedere Cristo in tutte le anime e in tutte le cose e oggi si trovano predicando il Vangelo in quelli denominati “destinazioni emblematiche”. Voglia anche il nostro Buon Dio servirsi di questa missiva per animare altri a fare – contro la propria sensualità e il proprio amore carnale e mondano- oblazione di maggior stima e maggior momento per mettere all’opera il richiamo del Re Eterno: “conquistare tutta la terra” e portare il nome di Cristo a “quelli [luoghi] dove nessuno vuole andare”. Le recenti visite in varie delle nostre missioni e la fedeltà di tanti dei nostri che ho potuto constatare di persona mi hanno motivato, pure, a scrivere queste righe. 

1. Destinazioni emblematiche

Iniziamo dunque col descrivere quello che intendiamo per “destinazioni emblematiche”.

Posti di avamposto, missioni o destinazioni emblematiche sono tutti sinonimi che si riferiscono a “luoghi che rappresentano una tinta di onore per la nostra piccola Famiglia Religiosa, perché si tratta di posti di missione dove talvolta i missionari non vedono frutti abbondanti del loro lavoro, da dove probabilmente non sorgeranno vocazioni e dove, probabilmente, se non avessimo accettato noi di andare nessuno sarebbe voluto andare a causa delle difficoltà”.

Questo non è semplicemente “un modo di dire”, piuttosto è un’esigenza espressa nel diritto proprio: “Non c’è posto dove ci sia un’anima che sia vietato al missionario. Dalle capanne più umili, alle altezze più alte, dai burroni scabrosi a dove c’è meno gente, da dove si sperano meno frutti a dove la gente è più discola, a dove ci sono più difficoltà … lì il missionario deve andare preso dal suo bastone, con la sua auto, in aereo, a piedi o a cavallo, sul carretto o in barca … perché questa è la sua vocazione e a questo lo invia l’obbedienza”.  Per questo i Padri Capitolari tanto nell’anno 2007 come nel 2016 hanno visto ed hanno fatto discernimento che l’Istituto deve dare priorità a questo tipo di missioni, precisamente perché “l’elezione dei posti di avamposto nella missione”, è dire, quello che abbiamo dato chiamando “destinazioni emblematiche” è un elemento aggiunto non negoziabile del carisma dell’Istituto.

Per questo, quanto è da ringraziare nostro Signore che ci abbia dato l’immensa grazia di poter ubbidire al suo mandato: Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura in una maniera splendida nei nostri pochi anni di esistenza, grazie alla magnanima generosità di tanti dei nostri fratelli!

Giacché un giorno essi, essendo coerenti alle promesse assunte nella nostra formula della professione, quando promettiamo di “non essere schivo all’avventura missionaria” e fare “oblazione di tutto il mio essere” -che significa fino all’eroismo del dono senza riserve-, sono partiti precisamente verso “i luoghi più umili e difficili” per corrispondere in misura adeguata a Colui che ci ha amati per primo: la radicalità.

E così oggigiorno e grazie a loro il nostro caro Istituto si trova in Siria, a Brooklyn (USA), nelle Isole di Salomon, in Egitto, in Papua Nuova Guinea, in Iraq, nella Striscia di Gaza, in Tajikistan, in Islanda, in Guyana, in Tanzania e in molti altre “destinazioni emblematiche”. Colgo l’occasione per risaltare tre delle nostre missioni emblematiche che quest’anno stanno celebrando 25 anni dall’inizio della loro fondazione: Russia, Terra Santa e Taiwan. Grazie a coloro che furono pionieri in questi luoghi e grazie a coloro che essendo eredi di questo talento lo hanno saputo fare fruttificare.

Attualmente possiamo con sano orgoglio celebrare la magnifica opera di Dio in questi luoghi realizzata attraverso questi missionari perché non si sono lasciati intimidire dalle difficoltà, né spaventare dai dubbi, dalle incomprensioni, dai rifiuti, dalle persecuzioni; né si sono scoraggiati per lo scarso frutto o per la scarsità dei mezzi, né hanno desistito davanti alle notti più terribili. Perché?

Perché un autentico missionario del Verbo Incarnato si sa scelto, preso in mezzo agli uomini per la rispettabilissima missione di “essere strumento di salvezza”. Perché è convinto che “non lavora per cose effimere o passeggere, se non per ‘l’opera più divina fra le divine’, che è la salvezza eterna delle anime e con vera tempra sacerdotale si entusiasma ogni volta di più a camminare nel cammino regio della croce ingigantendo nel suo petto il vivo desiderio che Egli Regni. Perché dentro la sua anima sente direttamente rivolta a lui la divina lamentela di Nostro Signore: gli operai sono pochi e non può sottrarsi alla sublime “missione di portare il Vangelo a quanti –e sono milioni di uomini e donne– non conoscono ancora Cristo, Redentore degli uomini”. Perché sa che la sua vocazione esige da lui una donazione senza limiti di forze e di tempo e ad imitazione di Cristo vuole perdere la vita per salvarla e conquistarla in pienezza.

Effettivamente che razza di missionario sarebbe – scrive il Beato Paolo Manna – se la Croce non lo attirasse, se non fosse completamente persuaso della verità di queste parole: penso che a noi, gli Apostoli, Dio ci ha messi all’ultimo posto, come condannati a morte”? Il missionario dell’Istituto del Verbo Incarnato, uomo di fede, sa che, in questa vocazione divina, morire è trionfare e abbassarsi è conquistare.

Certamente, sempre ci sono stati e ci saranno, quei ‘saggi secondo il mondo’ che vogliono scoraggiare oppure ostacolare le missioni ad gentes – il diritto proprio parla anche di “una certa tendenza negativa” per mezzo della quale si cerca di far scomparire il fine di queste missioni – con scuse tali quasi che “non è valida la missione perché non è giusto imporre il proprio modo di pensare annullando la libertà”; che sono necessari  missionari ‘in casa’ – nel paese di origine o dove hanno realizzato la propria formazione-; che perché inviarli nei paesi dove si combatte la nostra santa religione – dove anche li incarcerano e li uccidono – quando c’è mancanza di sacerdoti diligenti che riaffermino e ravvivino la fede dentro la Chiesa nei paesi già cristiani; e persino ci sarà qualcuno che ‘preoccupato’ di proteggere la propria comodità si opponga  ad inviare missionari nei posti dove il clima estremo, la diversa cultura e la povertà si fanno sentire con più forza o dove ci siano tanti altri pericoli. Ad essi gli rispondiamo con le parole dei santi: “questa gente prudente che fa questa obiezione non ha capito la faccenda […] il preservare della fede tra noi sarà ricompensato nella stessa misura con la quale noi spendiamo tutte le nostre energie nel propagarla in altri posti”, perché “la fede si fortifica dandola!”.

Quando San Vincenzo de’ Paoli vide morire i suoi primi sette missionari inviati da lui stesso in Madagascar appena iniziato l’apostolato, ci furono anche alcuni “uomini prudenti” che si sforzarono di persuaderlo perché desistesse da tale impresa. Il Santo, malgrado ciò, guardava la cosa in maniera alquanto differente. Lui era convinto che dovesse seguitare a inviare missionari per continuare il lavoro perché l’immolazione di quelle vittime era il miglior presagio di un esito possibile per la missione.

“L’attività missionaria rappresenta anche oggigiorno la maggiore sfida per la Chiesa. È ogni volta più evidente che la gente che tuttavia non ha ricevuto il primo annuncio di Cristo costituisce la maggioranza dell’umanità”. Per questo sostiene il Magistero che le moltitudini hanno diritto a conoscere la ricchezza del mistero di Cristo. E noi abbiamo l’onorabilissimo dovere di andare ovunque a proclamare il messaggio salvifico del Verbo Incarnato. La missione ad gentes tuttavia è agli inizi! Ed è a noi come religiosi “essenzialmente missionari”, che ci compete il mantenere vivo l’entusiasmo missionario ed anche intensificarlo in accordo con il momento storico che viviamo.

La nostra sollecitudine per le missioni, specialmente in quei “posti più difficili” (quelli dove nessuno vuole andare)”, deve convertirsi in questo “impeto interiore” del quale parlava il Beato Paolo VI, vale a dire, “in fame e sete di far conoscere il Signore, quando si contemplano gli immensi orizzonti del mondo non cristiano”. Siamo persuasi che come religiosi dell’Istituto del Verbo Incarnato abbiamo ricevuto i confini di questo mondo come i cinque talenti che dobbiamo fare fruttificare.

Il “principe dei missionari”, San Francesco Saverio, diceva: “molti cristiani si lasciano dal fare in queste parti, per non avere persone che si occupino di cose così pie e sante”.

Chi ci sarà di noi allora che abbia generosità e non sia ansioso di fare altro per Cristo, senza che gli importino le pene che per Lui debba passare? queste cose? Non furono per caso la prima cosa che Nostro Signore propose all’ Apostolo dei Gentili quando disse: Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome? La grazia della nostra vocazione ci dà la forza per sopportare tutto anche quello che risulta insopportabile agli altri. 

Teniamo sempre presente che la nostra vocazione missionaria è “un invito a realizzare grandi opere, imprese straordinarie ed a farlo con l’impeto dei santi e dei martiri che diedero tutto a Dio, con la disposizione a morire, per vedere Cristo in tutte le cose” e “dando fuoco alle nostre navi” quando sbarchiamo nelle coste della nostra nuova missione.

2. Una spiritualità propria

Tuttavia, il nobilissimo compito di evangelizzare esige una spiritualità specifica che concerne particolarmente a coloro i quali Dio ha chiamato ad essere missionari come finemente segnala il diritto proprio.

“La spiritualità missionaria non è un genere o un tipo di spiritualità specificatamente diversa dalle altre spiritualità cristiane perché tutte devono realizzare il ‘mihi vivere Christus est’, ossia, la vita di Cristo in noi. Però è un orientamento o una forma e uno stile e una fisionomia di vita spirituale, di unione a Cristo orientata all’ideale missionario. Da questo si deduce che “la spiritualità missionaria della Chiesa è un cammino verso la santità”.

Tale spiritualità si appoggia su due amori: l’amore al Verbo incarnato e l’amore alle anime.

In effetti il nostro lavoro e il fine principale come religiosi missionari è offrirsi a Dio, amandolo sopra tutte le cose; e necessariamente amare il prossimo, giacché giustamente “è un’opera dell’amore di Dio aiutare il prossimo per Dio- per questo dice l’apostolo San Giacomo: la religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze.

“Tutti i santi missionari hanno unito in un accordo indivisibile questi due amori inseparabili. Questi sono i due bracci di cui va armato il missionario; i due piedi che devono guidare tutti i suoi passi; questi i due occhi coi quali deve guardare le sue imprese e dare centro alla sua vita, perché tutta questa sia sempre, in unità di intenzione, in unità di anelito, in unità di azione, una stessa ed unica risultante dell’amore di Dio per le anime e dell’amore delle anime per Dio”.

Allora, il primo è, come chiaramente lo esplicita il diritto proprio, “il vivere in piena docilità allo Spirito; il quale implica il lasciarsi plasmare interamente da Lui, per farsi ogni volta più somigliante a Cristo”.

– Pertanto, “nota essenziale della spiritualità missionaria è la comunione intima con Cristo: non si può comprendere e vivere se non c’è relazione con Cristo, inviato dal Padre ad evangelizzare. Paolo descrive i suoi comportamenti: abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo: il quale pur essendo di natura divina non considerò gelosamente la sua uguaglianza con Dio ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo divenendo simile agli uomini e apparendo nell’aspetto come un uomo; e umiliò se stesso, obbedendo fino alla morte ed alla morte di croce”.

“Questo si esige dal missionario” diceva il grande missionario planetario che fu il nostro caro San Giovanni Paolo Magno “che accetti di vivere in uno stato di permanente conversione. Il vero missionario è colui che accetta di compromettersi decisamente nei cammini di santità. Il missionario, se non è contemplativo, non può annunciare Cristo in modo credibile. Il missionario è un testimone dell’esperienza di Dio e deve poter dire come gli Apostoli: quello che contempliamo… riguardo alla Parola della vita… ve lo annunciamo”. E con questa sapienza sperimentale che le diedero gli innumerevoli viaggi intorno al mondo il Santo Padre aggiungeva: dopo l’entusiasmo del primo incontro con Cristo nei cammini della missione, è necessario sostenere valorosamente gli sforzi di ogni giorno con una intensa vita di preghiera, penitenza e dono di sé”.

“Oggi di fatto manca il fuoco: non una scintilla ma una fornace di fuoco. Anzitutto, il fuoco della santità. ‘La santità è un presupposto fondamentale e una condizione insostituibile per realizzare la missione salvifica della Chiesa’”. Per questo il diritto proprio citando il Magistero della Chiesa ci ricorda: non basta rinnovare i metodi pastorali, né organizzare e coordinare meglio le forze ecclesiali, né esplorare con maggiore acutezza i fondamenti biblici e teologici della fede; è necessario suscitare un nuovo ‘anelito di santità’ tra i missionari e in tutta la comunità cristiana”.

Osservando quello che San Luigi Orione prima di inviare i suoi primi missionari al Chaco argentino gli diceva: ho necessità di santi! Ho necessità di santi! Lo stesso può dire oggi il nostro caro Istituto. Perché la vitalità di esso e del suo apostolato sgorga dall’aspirazione amorosa e perseverante verso la santità di tutti noi.

– La seconda nota distintiva di questa spiritualità missionaria è conseguente all’amore a Cristo sopra ogni cosa e consiste nella perfetta abnegazione di se stessi. Dice il nostro Direttorio di Missioni Ad Gentes: al missionario gli si chiede ‘di rinunciare a se stesso e a tutto quello che ha avuto fino ad ora e a farsi tutto per tutti’: nella povertà che lo rende libero per il Vangelo; nel distacco dalle persone e dai beni del proprio ambiente per farsi così fratello di quelli ai quali è inviato e portarli a Cristo Salvatore”.

Lo stesso Verbo Incarnato ce lo insegnò: chi di voi non rinuncia a tutti i suoi beni non può essere mio discepolo. Conseguentemente possiamo affermare senza timore di equivocarci che “nulla caratterizza tanto la vita missionaria come il sacrificio”.

È in questo senso che il Beato Paolo Manna, rivolgendosi ai formatori degli aspiranti del suo Istituto diceva loro: “È necessario tenere ben presente questo principio ed essere ben convinti che, se la nostra vocazione significa qualcosa, essa è l’impegno solenne e reale, che ognuno di noi fa, di darsi tutti senza riserva al Signore, fino al sacrificio della vita per la salvezza delle anime”. 

A questi principi, dunque, di rinunce e di distacchi, deve essere orientata l’educazione che dobbiamo impartire nelle nostre case apostoliche e nei nostri seminari. E dove non troviamo eco, facciamo come fece Giuda Maccabeo, che a quelli che stavano costruendo case, a quelli che finivano di sposarsi o di piantare vigne e ai vigliacchi gli ordinò di tornarsene a casa e quindi si mise in marcia con il suo esercito”.

Qualcosa di molto simile è espresso nelle nostre Costituzioni: “Per compiere meglio la propria missione devono essere convinte che il modo migliore di svolgere un apostolato efficace è l’unione più intima con il Verbo Incarnato e l’amore per le anime fino all’eroismo del dono senza riserve”. E ai formatori gli si chiede che abbiano “una chiara intenzione di fare una rigorosissima selezione perché è capitale mantenere il buon spirito. Sapendo che nel selezionare vale più equivocarsi per eccesso che per difetto”.

Per questo motivo il diritto proprio paternamente esorta a chi nel nostro Istituto svolge il ruolo di formatore a che “con singolare impegno educhino i nostri candidati all’obbedienza sacerdotale, al tenore di vita povero ed allo spirito della propria abnegazione, di modo che si abituino a rinunciare con prontezza alle cose che, anche se siano lecite, non convengono, e ad assimilarsi a Cristo Crocifisso” risaltando che “ il futuro dei nostri fratelli nella vita religiosa e, pertanto, dell’Istituto dipende, fondamentalmente dalla formazione che si dà nei tempi di preparazione”

In altre parole: la vita missionaria nel nostro Istituto ci invita molto soavemente alla conquista del “disinteresse totale, non solo rispetto ai beni materiali –oggetto proprio della virtù della povertà- ma anche riguardo a tutto quando non sia Dio”. E questo in tal modo che con tutta verità si possano applicare ai nostri missionari quelle parole del Mistico Dottore di Fontiveros: “abbandonando ogni possesso e dimenticando la cura del cibo, dei vestiti e di qualsiasi altra cosa creata, investi tutte le tue forze nel cercare il regno di Dio, perché sai che colui che si prende cura delle bestie non può dimenticarsi di lui”, e con questa disposizione martiriale marcia verso le missioni, convinto che “Dio provvede a tutte le cose… in modo che non si avverta se fa soffrire o meno e anche se costerà lasciare i beni terreni, sappia che non sono niente, perché presto dovrà lasciarli”.

San Giovanni di Brébeuf, missionario gesuita in quella che allora era chiamata la Nuova Francia e che oggi si chiama Canada, e martirizzato dagli stessi che evangelizzò, scrisse un documento raggruppando una serie di “Importanti avvisi per quelli che Dio si compiace di chiamare alla Nuova Francia” destinato alle nobili anime che aspiravano a essere missionari nel suo Istituto e che noi possiamo ben applicare al nostro.

In questo scritto il santo stila una lunga lista delle difficoltà per arrivare al luogo della missione, e anche delle scomodità e delle avversità che deve affrontare il missionario in quella missione: la ‘miseria’ del luogo dove vivono, gli insetti, gli odori, le umiliazioni che si vivono nell’imparare la lingua, le cattive abitudini degli indiani Uroni, i continui pericoli e minacce di morte, la assenza totale di consolazioni esteriori nella vita di pietà e di orazione, ecc. A continuazione, il santo mette in bocca al lettore le seguenti parole: “Ma questo è tutto? –qualcuno di voi potrebbe dire- Per caso credi che questi argomenti possono spegnere il fuoco che mi consuma e placare il desiderio che ho della conversione di questi pagani? Dichiaro che queste difficoltà sono servite solo per confermarmi ancora di più nella mia vocazione; che mi sento più entusiasmato che mai nel mio affetto per la Nuova Francia, e che ho una santa invidia per quelli che già sopportano tutte queste sofferenze. Tutti questi lavori mi sembrano un niente comparati con quello che sono disposto a sopportare per Dio. Inoltre, se conoscessi un luogo sotto questo cielo dove ci fosse più da soffrire, andrei lì. Ah! –continua San Giovanni di Brébeuf- chiunque sia colui al quale Dio da questi sentimenti e questa luce, venga, venga, mio caro fratello, sono operai come te quelli che chiamiamo qui; sono le anime come la tua quelle che Dio ha designato per la conquista di tante altre anime che il diavolo ha in suo potere. Non anticipare difficoltà, non ce ne sarà nessuna per te, perché vederti crocifisso con il Figlio di Dio è la tua consolazione. Il silenzio sarà dolce per te, perché hai imparato ad essere in comunione con Dio e a conversare con i santi e gli angeli del cielo. Il cibo sarebbe per te abbastanza insipido se il freddo che sopportò Nostro Signore non la facesse più dolce e più saporita delle vivande più deliziose del mondo. Che soddisfazione attraversare queste rapide e scalare queste rocce per chi ha davanti ai suoi occhi l’amoroso Salvatore colpito dalle torture e in salita verso il Calvario caricato della sua Croce. La scomodità della canoa diventa molto facile da sopportare per chi considera costantemente il Crocifisso. Che consolazione! Che consolazione, dunque, sarà vederti abbandonato dai selvaggi lungo il cammino, indebolito dalle infermità, o anche morire di fame nel bosco, e così poter dire a Dio: ‘Dio mio, è per la tua santa volontà che mi riduco nello stato in cui mi vedi’”!. Perché in verità “Gesù Cristo è la nostra vera grandezza; si deve cercare solo Cristo e le sue croci per guidare questo gregge. Se cerchiamo qualcosa di più, non troveremo altro che afflizioni fisiche e spirituali. Però se abbiamo trovato Gesù Cristo sulla croce, abbiamo trovato le rose tra le spine, la dolcezza nell’amarezza, e tutto nel niente”.

– Questo mi dà occasione di menzionare qui la terza caratteristica della spiritualità missionaria che è, secondo il diritto proprio: “la carità apostolica, quella di Cristo che venne per riunire in uno i figli di Dio che erano dispersi”. In effetti, è affrettati dalla carità di Cristo che ci muoviamo ad assumere la responsabilità dell’evangelizzazione, specialmente nei “luoghi più umili e difficili”.

Teniamolo ben fisso nell’anima: da quando il nostro compito è “amare e servire, e fare amare e fare servire Gesù Cristo” non possiamo essere indifferenti alla salvezza degli uomini. “Amare Cristo è amare quelli che Lui ama e amarli come Lui li ama”. Per questo, il diritto proprio specifica che questa carità, a somiglianza di quella del Verbo Incarnato, “è fatta di attenzioni, tenerezza, compassione, accoglienza, disponibilità, interesse ai problemi della gente” già che –intendiamolo ebbene- il nostro “destino non sono né il comando né gli onori, ma la disponibilità totale al servizio di Dio e al ministero pastorale” nella pratica concreta della carità che non trascura le differenti forme di assistenza. E a questo punto faccio mie le parole che San Francesco Saverio rivolse a un missionario: “Per amore di Nostro Signore ti chiedo che ti faccia amare… perché non sarò soddisfatto nel sapere che tu li ami, ma che da loro sei amato”.

Avendo potuto visitare, per grazia di Dio, la grande maggioranza delle nostre Provincie e Delegazioni, tutte le quali presentano realtà molto diverse, ed essendo alcune di queste un reale “luogo di avanguardia” in zone di evangelizzazione quasi vergini, si ammira come i nostri missionari arrivarono quasi a mani vuote, senza altra cosa che la condivisione del Vangelo, il fervore del loro amore e l’assistenza dello Spirito Santo. Molti di loro anche oggi compiono la loro missione con mezzi precari, che in verità rappresentano una sfida per il compito che stanno realizzando. Ciò nonostante, con quanta allegria e fortezza mettono in gioco “la vita affinché gli altri abbiano la vita e la speranza”. È per l’amore alle anime che i nostri missionari non solo hanno intrapreso, ma anche proseguito molte iniziative apostoliche al prezzo di grandi fatiche, alle volte rimanendone estenuati, sopportando un clima al quale non erano abituati, in qualsiasi paese lontano, adattandosi a tutte le usanze e imparando la lingua con la quale comunicare; infine, si ingegnano in modo da salvare a tutti i costi qualcuno e prestano a tutti un servizio puramente evangelico, annunciando la conversione, amministrando i sacramenti della salvezza, esortando all’orazione, formando le coscienze, ecc., in modo tale che le anime che sono loro affidate giungano alla maturità della fede e della carità.

Per questo, il diritto proprio definisce con tutta verità il missionario come “l’uomo della carità”, infatti, spendendo la sua vita per il prossimo, annuncia agli uomini che sono amati da Dio e che loro stessi possono amare. E ama le anime a lui affidate con un amore di padre, e anche di madre, fino ad arrivare a dire con l’Apostolo: mossi dal nostro amore per voi, vogliamo non solo consegnarvi il Vangelo di Dio, ma anche le nostre proprie vite: tanto siete arrivati ad essere amati. Per questa ragione diceva il Beato Paolo Manna: “il sacrificio della vita di uno per gli altri è la prova sincera della carità a cui né Dio né gli uomini possono resistere. Dio deve essere misericordioso e gli uomini non possono resistere alla conversione. Quindi, il fine per i quali i martiri versarono il loro sangue è lo stesso per il quale i missionari sacrificano la vita in modo così umile ma alle volte anche così difficile”.

E qui voglio ricordare specialmente tutti quelli che, in certi luoghi difficili di missione, conoscono per esperienza ciò che significa perseverare in mezzo a grandi difficoltà, nel nascondimento e nella solitudine. Sappiano che loro silenziosamente –e giustamente, per questo, con più eloquenza- ci insegnano che “il missionario, per essere veramente tale, deve darsi tutto, e deve darsi per sempre. Al Signore non si può dare nulla a metà; al Signore non si toglie la metà. E non darsi per sempre significa non darsi del tutto”. Spendersi in questo modo è possibile, assistiti ovviamente con la grazia di Dio, per una vita solida di orazione: “Quando non c’è orazione, manca la carità; quando manca la carità, non c’è orazione, e per queste carenze non ci sono molti autentici missionari…”.

Cari tutti: dobbiamo sempre avere presente che il nostro dovere è “spenderci tutti” “nel servizio umile e nell’impegno generoso, nella donazione gratuita di se stessi mediante un amore fino all’estremo” che ci fa arrivare fino “alle regioni più lontane”. “La nostra piccola Famiglia Religiosa non deve essere mai ripiegata su se stessa, ma deve essere aperta come le braccia di Cristo in Croce, scongiunte per quanto erano aperte dall’amore”. Abbiamo bisogno di missionari che, senza mettere condizioni alla propria disponibilità, senza timori a rispondere in modo definitivo, siano disposti a pronunciare un fiat gioioso e che impazienti né sostino né riposino fino ad avere posto davanti all’altare di Dio tutti i cuori.

Per grazia di Dio il nostro Istituto ha attualmente 123 richieste di fondazione, tra le quali molte sono in “posti in prima linea” dei quali abbiamo parlato, e costantemente ci arrivano più e più richieste. La domanda è questa: come possiamo riposare, se tutti quelli che Cristo desidera suoi non hanno ancora sentito parlare del suo amore? Come essere religioso missionario dell’Istituto del Verbo Incarnato e non sentire lo stesso ardore di Cristo per le anime? Bene, a chi sperimenti questo santo impeto missionario di dare tutto per Dio nelle terre di missione fino quanto “viva tra le lacrime”, a questo punto che San Francesco Saverio prima della visita dei lavori e delle pene arrivi a dire: “Di più, di più”, a questi diciamo che sappia che ha nel nostro Istituto un campo vastissimo e occasioni innumerevoli di spendersi con ardore “nell’impulso per la sete delle anime”.

Non dimentichiamo che siamo chiamati a “essere calici pieni di Cristo che spargono sopra gli altri la loro sovrabbondanza”. E “vista la indole missionaria del nostro Istituto” con Don Orione possiamo affermare che “chi non vuole essere apostolo esca dalla Congregazione”.

Voglio animare i nostri cari novizi e seminaristi che si preparano alla missione ad approfittare al massimo di questi anni di formazione. La nostra missione richiede una profonda vita spirituale, una solida formazione dottrinale e una disciplina virile che già da adesso dovete sforzarvi di acquistare. Già da adesso, siano sacerdoti nell’impegno totale di se stessi nel sacrificio. Con generosità siano sensibili e pronti alle necessità degli altri e si preparino per essere tra loro, come fece il Verbo Incarnato, essendo poveri agli occhi del mondo ma ricchi nei doni che Dio darà loro affinché li trasmettano agli altri.

Ai nostri cari fratelli e ai nostri cari monaci voglio dire che sappiano che la loro partecipazione nello “sforzo nella missione apostolica della congregazione”, sempre molto importante, è oggi urgente e irrinunciabile. 

A Maria Santissima, Modello di tutti i missionari del Verbo Incarnato, raccomando tutti voi e le vostre missioni, con tutte le circostanze e necessità particolari. Che Lei ci ottenga dal suo Divino Figlio la grazia che, pur essendo una piccola Famiglia Religiosa, siamo giganti nell’eroismo della totale donazione, senza riserve.

Un grande abbraccio a tutti.

Nel Verbo Incarnato e nella sua Santissima Madre,

P. Gustavo Nieto, IVE

Superior General

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