Uniti nella missione

Roma, 1 giugno 2019

Lettera Circolare 35/2019

Uniti nella missione

Direttorio di Vita Fraterna, 25

Cari Padri, Fratelli, Seminaristi e Novizi: 

Nel mese che la Chiesa dedica a contemplare ed onorare il Sacratissimo Cuore di Gesù che nell’ultima Cena ci proclamò suoi amici –non senza averci detto prima amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi affinché andiamo e diamo testimonianza di carità e il nostro frutto rimanga– desidero scrivervi sulla testimonianza e la missione di fratellanza alla quale Cristo ci chiama. 

Le nostre Costituzioni segnalano esplicitamente: “In nome di Cristo desideriamo costituire una Famiglia Religiosa nella quale i membri siano disposti a vivere … amandosi in tal modo gli uni gli altri per il fatto di essere figli dello stesso Padre, fratelli dello stesso Figlio e templi dello stesso Spirito Santo, in modo da formare un solo cuore e un’anima sola”. 

Cioè, il Verbo Incarnato ci ha chiamati nel nostro Istituto per dare testimonianza dell’amore di Dio che arde nei nostri cuori, rendendoci suoi amici e collaboratori nella sublime opera della Redenzione secondo la nostra propria vocazione, cioè secondo il nostro proprio carisma.

Lo diceva già San Giovanni Paolo II: “Oggi la Chiesa non ha necessità di funzionari, amministratori o imprenditori, ma soprattutto di ‘amici di Cristo’, che sappiano manifestare l’amore in un atteggiamento di servizio agli altri, che non escluda alcuno”. Poiché la comunione con Cristo riposa sempre nella comunione e nella carità fraterna con gli altri. 

1. Cristo: Primogenito tra molti fratelli

A quelli che da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, dice San Paolo.

Questo passaggio dalla Lettera ai Romani ci parla, soprattutto, della nostra eterna vocazione. Anche se, inevitabilmente, ci fa pensare anche alla nostra vocazione religiosa e sacerdotale, attraverso la quale, particolarissimamente, Dio ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo. Questo ci deve portare a “riconoscere sempre che la nostra vocazione ha la propria fonte solo in Dio che conosce ciascuno nel Verbo, suo Figlio, e conoscendoci ci predestina, affinché anche noi giungiamo ad essere sui Figli. Così, il Figlio eterno e unigenito, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, ha i propri fratelli sulla terra, essendo Lui il primogenito fra molti fratelli”. 

Siamo stati resi fratelli in Cristo! E con Cristo! Per questo motivo, “pensare alla nostra vocazione sacerdotale vuole dire, anche, avere familiarità con il mistero eterno, che è mistero di carità, mistero di grazia. Questa è senza dubbio la piena e fondamentale dimensione di preparazione al nostro sacerdozio.”.Rendersi conto di questo, dà alla nostra vocazione un senso profondo nella prospettiva di tutta la nostra vita.

D’altro canto, possiamo inoltre dire che la nostra vocazione singolare implica, innanzitutto, che siamo uniti a Gesù, in un modo molto speciale: come amici. Poiché sebbene nel piano naturale non tutti i fratelli siano amici, tutti i veri amici sono come fratelli, e Cristo ci chiama a doppio titolo: ad essere suoi fratelli e indissolubilmente suoi amici.

Non vi chiamo servi, ma amici. Queste parole pronunciate da Lui prima di morire e, nel contesto immediato dell’istituzione dell’Eucarestia e del sacerdozio ministeriale, esprimono in certo modo l’essenza del ministero al quale aspirano i nostri seminaristi o del quale già godono molti dei nostri. Siamo stati scelti specialmente per essere amici di Gesù Cristo.

Cristo stesso ci spiegò ciò che questa scelta significa: il servo non sa ciò che fa il suo padrone; gli amici, d’altro canto, si conoscono a fondo, perché nell’amicizia uno si rivela all’altro.Questo significa che il vero amico intende, accoglie, difende il suo amico e in un modo molto reale partecipa alla sua vita.

È così che questa comunione amorosa con Cristo fa sì che abbiamo gli stessi sentimenti di Cristo Gesù. Cioè, che abbiamo la mentalità di Cristo,  la quale si acquista nella “santa familiarità con il Verbo fatto carne”. È tanto importante la familiarità intima con Cristo che San Giovanni Pablo II assicurava che in ciò risiede “il fondamento solido di tutta la vita sacerdotale e religiosa” e le nostre Costituzioni indicano questo elemento come “assolutamente imprescindibile”.

Senza quest’amicizia sarebbe difficile pensare che Egli ci ha affidato, dopo gli apostoli, il sacramento del suo Corpo e del suo Sangue ed, ancor più, il potere di celebrarlo in persona Christi. Senza questa speciale amicizia sarebbe anche difficile pensare che ci abbia conferito il potere di perdonare i peccati.  E che ci abbia affidato le sue pecore, per le quali diede la sua vita. Di fatto, a San Pietro le affidò soltanto dopo che l’Apostolo gli professò il suo amore incondizionato: Signore, tu sai tutto, tu sai che ti amo

Questa amicizia con Cristo che ci ha fatto lasciare tutto per Lui e che ci ha chiamati a seguirlo da vicino, ci coinvolge anche nella sua missione, come lo fece con i suoi apostoli. Poiché, come ben dicono i nostri documenti, la missione appartiene alla volontà salvifica di Cristo. 

Nessuno può negare che l’amicizia con Cristo ha richiesto da parte nostra vari sacrifici, separazioni dolorose e un esporsi costantemente a chissà quali difficoltà. Però queste separazioni, queste rinunce, non si fanno una volta sola, ma ogni giorno, e ciò suppone presentarsi come ministri di Dio con grande fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angustie … con pazienza, sapienza, bontà, spirito di santità, amore sincero. Affinché Cristo possa veramente dire di noi, come dei suoi apostoli: Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove.

Con l’ordinazione sacerdotale, in forza del carattere sacramentale, siamo stati resi ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio; siamo ambasciatori di Cristo. Pertanto, dobbiamo rappresentare Cristo. L’unico modo per rappresentarlo è “riproducendolo, facendoci simili a Lui, configurandoci a Lui”; facendo dell’amare o del non amare di Cristo il nostro, perché è questa la vera amicizia. 

L’amicizia con Cristo compromette. Pertanto, “siamo obbligati, come amici, a sentire in noi ciò che vediamo in Gesù Cristo, che è santo, innocente, immacolato: come suoi ambasciatori, dobbiamo conquistare –tramite la sua dottrina e le sue leggi– la fiducia degli uomini, iniziando ad osservarla noi per primi; come partecipanti del suo potere, dobbiamo liberare le anime dai restanti lacci del peccato, ma dobbiamo attentamente assicurarci di non rimanervi intrappolati. Ma, soprattutto, come suoi ministri, all’offrire la Vittima nel Santo Sacrificio dell’altare, dobbiamo disporre il nostro animo conformemente a quello con cui Egli si offrì a Dio quale ostia immacolata sull’ara della croce”.

Se almeno qualche volta ponderassimo nell’anima tutto il peso e la profondità dell’essere fratelli-amici di Cristo, potremmo esclamare con San Manuel González: “Essere chiamato amico di Gesù! Io credo che tra i titoli di cui possano sottoscrivere gli uomini lodando altri uomini, e che possa sottoscrivere la stessa mano di Dio in favore dei suoi figli sulla terra, non c’è nessuno che conferisca tanto onore e supponga tanto amore come quello di amico di Gesù, dato dallo stesso Gesù”.

Quest’amicizia col Verbo Incarnato, però, “non si improvvisa, ma si prepara nel corso di molti anni in seminario e poi si riscopre e si approfondisce continuamente” durante la nostra esistenza sacerdotale. 

Perciò è conveniente che già dal noviziato e poi nel seminario tutti i nostri membri imparino a conoscere il Cuore di Cristo, per convertirsi in sacerdoti secondo il suo Cuore. Questo è ciò che ci prescrive il diritto proprio facendosi eco del Magistero della Chiesa: “La formazione spirituale… sia impartita in modo tale che gli alunni imparino a vivere in intima comunione e familiarità col Padre per mezzo del suo Figlio Gesù Cristo, nello Spirito Santo. Destinati a configurarsi a Cristo sacerdote per mezzo della sacra ordinazione, si abituino anche a vivere intimamente uniti a lui, come amici, in tutta la loro vita”. 

Quindi, se siamo amici di Cristo, come non essere amici degli ‘altri Cristi’! Perché Cristo ci ha resi fratelli e lo ha fatto in questa Famiglia Religiosa, non in un’altra. Così, tutti insieme aspiriamo a raggiungere lo stesso ideale e tutti insieme dobbiamo percorrere il camino verso la santità, santità che si traduce concretamente nel cammino indicato dalle Costituzioni. “Non si tratta di una semplice dipendenza disciplinare, ma di una realtà di fede”. “Ricordate che l’Istituto non è un collegio, neppure un seminario, ma una famiglia. Siamo tutti fratelli; viviamo assieme, ci prepariamo assieme, per poi lavorare assieme per tutta la vita. Per questo motivo, nell’Istituto dobbiamo formare una cosa sola fino a dare la vita gli uni per gli altri.”.

Ciò ci porta al secondo punto di questa lettera.

2. Chiamati ad essere uniti tra noi

Insegna la Lumen Gentium: “In virtù della comunità di ordinazione e missione, tutti i sacerdoti sono fra loro legati da un’intima fraternità, che deve spontaneamente e volentieri manifestarsi nel mutuo aiuto, spirituale e materiale, pastorale e personale…”. E la Presbyterorum Ordinis precisa che “tutti i sacerdoti sono uniti tra di loro da un’intima fraternità sacramentale”.  

Da ciò deriva l’invito alla “unità con gli altri presbiteri, sia del clero diocesano come di quello religioso” e a cooperare con loro in tutto ciò che possiamo. In questo senso, di quanti buoni esempi da parte dei nostri siamo stati testimoni! Chi può calcolare le volte in cui abbiamo visto i nostri camminare oltre un miglio per i sacerdoti bisognosi! Lo stesso dobbiamo fare tutti noi e in questo spirito devono essere istruiti coloro che si formano nelle nostre case. 

Questa fratellanza sacerdotale che si manifesta nell’affetto reciproco e si rende manifesta nella collaborazione e nell’appoggio pastorale, nella preghiera, nella direzione spirituale ed anche nell’assistenza materiale, etc. “aiuta molto”, diceva Giovanni Paolo Magno. “Aiuta a vivere insieme i problemi, a parlare insieme, ad essere insieme, a celebrare insieme, anche a mangiare insieme… E quest’ultimo aspetto non è da trascurare, da lasciare da parte. Sappiamo che lo faceva lo stesso Signore. Anche dopo la risurrezione è venuto e ha chiesto: Avete qui qualche cosa da mangiare?”.

Tuttavia, se questo si dice di tutti i sacerdoti -sia diocesani che religiosi- quanto più deve dirsi di noi che siamo figli della stessa Congregazione -che il diritto proprio ci invita ad amare come a nostra Madre– e che, pertanto, condividiamo la stessa vita fraterna in comune, lo stesso ideale, lo stesso fine ed abbiamo la stessa missione. 

L’amore dello stesso Verbo Incarnato è il laccio della nostra unità nella Famiglia Religiosa. Per questo per noi è “totalmente imprescindibile vivere la carità fraterna”. Ciò consiste nel considerare gli altri più degni; nel sopportare con una pazienza senza limiti le loro debilità, tanto corporali quanto spirituali; mettere tutto il nostro impegno nell’essere a disposizione gli uni degli altri; nel cercare ogni bene per gli altri, prima che per se stessi; nel mettere in pratica un sincero amore fraterno; vivendo sempre nel timore e nell’amore di Dio; amando il superiore con una carità sincera ed umile; senza anteporre assolutamente niente a Cristo”. 

Chiunque, sia novizio o viva da tempo nell’Istituto, sa che la vita religiosa offre innumerevoli opportunità per crescere nella carità. La preghiera in comune e la pastorale comunitaria sono sicuramente due mezzi indispensabili per questo e di entrambe ho già trattato in altre lettere circolari.

Vorrei ora, comunque, menzionare un mezzo molto alla mano per crescere nella carità che è il conoscersi. “Per giungere a essere veramente fratelli è necessario conoscersi. Per conoscersi è molto importante comunicare ogni volta in modo più ampio e profondo. La comunicazione crea normalmente relazioni più strette, alimenta lo spirito di famiglia e la partecipazione in tutto ciò che riguarda l’intero Istituto, sensibilizza riguardo ai problemi generali e unisce di più le persone consacrate nella comune missione”.

“La comunicazione raggiunge il difficile passo ‘dall’io’ al ‘noi’, dal mio impegno all’impegno fiducioso per la comunità, dalla ricerca delle mie cose alla ricerca delle ‘cose di Cristo’”. Perché la “la comunione delle menti facilmente si trasforma in unione di cuori”.

Ed anche se lo abbiamo menzionato altre volte, questa volta vorrei enfatizzarlo: “Solo nello spirito di famiglia, solo nello spirito di fiducia… si può vivere l’ambiente educativo, religioso, aperto a tutti, di carità, di gioia e di libertà”. 

A ciò bisogna aggiungere che ancor più importante per un profondo spirito di fratellanza è l’unità dell’anima e del cuore che si fortifica nell’impegno condiviso verso la santità, nel rendere ogni volta più fecondo il carisma dell’Istituto, che va unito al l’impegno di seguire il Verbo Incarnato osservando fedelmente i suoi insegnamenti evangelici e le Costituzioni dell’Istituto.

Per questo mi sembra opportuno ripetere qui le parole che il Beato Giuseppe Allamano dirigeva ai suoi e che credo sia buono leggere con particolare attenzione: “Per possedere la vera carità ci vuole l’unione, ma l’unione fra tutti. Uno per tutti e tutti per uno. Questo ripeto, in una comunità [si applica qui all’Istituto come un tutto] è la cosa più necessaria. Dove non c’è questa unione è la rovina. Costi quel che costi, bisogna fare in modo che ci sia l’unione. Noi formiamo un solo corpo morale e dovremmo avere fra noi l’unione che c’è fra le membra del corpo fisico. Questa unione è necessaria per vivere in pace e per essere forti. L’unione fa la forza. L’unione fra i membri di una comunità fa di questa un esercito ben agguerrito e ordinato, capace di vincere qualsiasi nemico od ostacolo. Al contrario, la disunione distrugge una comunità. Ogni istituto ha uno scopo speciale che si consegue con la cooperazione di tutti. Così fanno i membri degli istituti ben ordinati i quali, senza credersi superiori agli altri, preferiscono il proprio e cercano di renderlo sempre migliore. Noi teniamoci in basso, come gli ultimi venuti, ma nello stesso tempo sentiamoci felici di appartenere al nostro Istituto e coltiviamo in noi la persuasione che il Signore ci ha favoriti chiamandoci in questa Famiglia. Bisogna amarla la propria comunità, così come la propria vocazione. Allora si ha l’unione di pensieri e si va avanti uniti. Una comunità in cui si mantiene questa unione, non può non fare del bene. Quindi, procurate di averla e mantenerla. L’unione è la sostanza della carità!”.

Persuadiamoci quindi del fatto che noi “siamo uniti in Cristo per vivere ognuno per tutti e non ognuno per sé”. Per vocazione, tutti noi siamo totalmente consacrati, anima e corpo, alla causa del nostro Istituto, vale a dire: agli interessi di Cristo. È per questo che abbiamo “compromesso tutta la nostra vita per manifestare Cristo al mondo… ed è per questo motivo, che il raggio della nostra azione non ha limiti di orizzonte ma è il mondo intero”. 

Da qui nasce il nostro dovere di lavorare affinché quel regno di Cristo si stabilizzi e si consolidi nelle anime e si dilati per tutto il mondo, anche in quei luoghi nei quali nessuno vuole andare. Anche oggi l’idea clamorosa è sacrificarsi. Questo è necessario a tal punto che, parafrasando Don Orione, anche noi possiamo dire che colui il quale non voglia sacrificarsi per l’Istituto e la sua opera “è un disertore della nostra bandiera”. 

3. Uniti nella missione

I nostri tempi richiedono audacia e generosità, fedeltà assoluta al Vangelo, intensa formazione ed apertura coraggiosa alle urgenti necessità dell’evangelizzazione. “È tutto un mondo che bisogna ristrutturare in Cristo”.

Mi costa, e l’ho visto in molte delle nostre missioni, che molti dei nostri arrivino alla fine del giorno consumati per la stanchezza dovuta all’intenso lavoro sacerdotale: dopo aver percorso lunghi tragitti per portare i sacramenti, per aver dovuto sostituire questo o quel sacerdote assente, per la quantità di persone che devono assistere e sono sovraccarichi, seguito da un lungo eccetera. So anche che a volte la lontananza, la stanchezza, le necessità di rinforzi e il tempo di attesa, sommato ai tanti altri ‘umori’ possono far sorgere in noi questo reclamo oscuro che sommerge l’anima e tende a rendere opaco l’impeto missionario che dovrebbe sempre imperare.

Nonostante, in un certo modo, questo sia anche parte della nostra vocazione, come dice l’apostolo, prodigarci e consumarci sempre, con animo grande, anche se siamo pochi, anche se ci perseguitano, anche se abbiamo molte necessità, anche se il lavoro è immenso e non possiamo farcela. A riguardo, vorrei condividere con voi il magnanimo esempio del fondatore dei Figli della Divina Provvidenza, che parlando ad una religiosa, le disse: “Ve lo commento ora che non mi ascoltano i miei sacerdoti e chierici, [ovvero,] tutte le persone che trainano il carro. Sembriamo molti, emettiamo molto rumore e siamo quattro noci nella borsa. Sapete quanti missionari nostri ci sono in Brasile? Ce ne sono due, e ci sono due case e quindici o sedici case di religiose da dirigere. Ho l’abitudine di aprire una casa quando uno dei nostri si ordina sacerdote. Tre si sono ordinati ora ed ho aperto tre case. Un solo sacerdote dirige tre case dove ci sono più di cento orfani e 25 sordomuti; cattivi ragazzi, educati dai socialisti, che odiavano i sacerdoti e sono arrivati a rompere le finestre per dispetto. Ebbene, ora è lì don Sterpi, ma deve andare via e continuerà un solo sacerdote. Qual è la nostra forza, che ci dà tanto coraggio? La nostra unione! Ci amiamo tutti in Cristo, ci sentiamo fratelli; la nostra unione è la nostra forza”. 

Lo stesso, dobbiamo ripetere noi se vogliamo far fiorire le nostre imprese apostoliche. Nessuno di noi lavora da solo nella vigna del Signore. Per questo, insegna l’apostolo: Portate i pesi gli uni degli altri: così adempirete la legge di Cristo.

È necessario un lavoro sinergico, con buono spirito da parte di tutti, con grinta, sapendoci sostenere fraternamente, mantenendo vivo l’impulso missionario e persino intensificandolo, visto il momento storico che stiamo indubitabilmente vivendo nell’Istituto, facendo e sacrificandoci ognuno nel suo, il più possibile, per portare sempre in alto lo stendardo della sublime missione che ci è stata affidata: quella di “portare a plenitudine le conseguenze dell’Incarnazione del Verbo”. 

Notate con quale paterna esortazione ci previene il diritto proprio per non cadere nella tentazione di essere “localisti”, ovvero, di essere come coloro che “si preoccupano solo degli interessi del campanile, vivono tutti presi dalla loro piccola opera, hanno spirito di ghetto, sembrerebbe che la Chiesa si riduca solo alla loro parrocchia, città, provincia o paese”. Poiché, ci appartiene propriamente il vivere orientati verso la missione comune, al servizio della Chiesa universale, “donandoci generosamente al lavoro apostolico”, anche se a volte, siamo a distanza o possiamo farlo solo tra lacrime.

“Siamo tutti una cooperazione, cioè, un corpo mistico in Cristo… [da ciò deriva il fatto che] ognuno, da parte sua, mette tutto ciò che possiede per la perfetta concordia” e per portare avanti l’opera dell’Istituto.

Questo è lo spirito nel quale siamo stati formati e nel quale dobbiamo rimanere: “la felicità sacerdotale -e la felicità del fratello e del seminarista- consiste nello spendersi e consumarsi. Questa è la mistica del lavoro sacerdotale. E qual è la misura in cui bisogna spendersi e consumarsi?… È la regola che segnala Sant’Ignazio per la penitenza: ‘quanto più tanto meglio, purché la persona non si indebolisca e non ne consegua una seria infermità’. Dobbiamo, inoltre, prepararci per lavorare anche nel cielo, come Santa Teresina”.

Alimentare nell’anima un atteggiamento distinto o comportarsi in modo opposto potrebbe significare agire come quel religioso al quale il santo fondatore dell’Opera della Divina Provvidenza chiamava un “religioso servo”–non amico– che “cerca i propri interessi in tutto, che approfitta della Congregazione per conseguire i propri fini; che obbedisce alla propria Congregazione solo con timore e per timore, che lavora con indifferenza e malvolentieri”. Sono coloro che il diritto proprio denomina falsi fratelli, che sembrano stare con noi ma non sono dei nostri.

Quindi questo religioso servo è colui che “gode vivendo la sua vita”, che “è incline alla critica”, che “sta sempre con i più freddi, con i buffoni di professione”. “Quando bisogna dargli una destinazione, è necessario che il superiore faccia un esame: accetterà o no? E quando sarà in quella casa, come si comporterà? Si comporterà come un buon religioso o come un religioso ‘servo’? E soprattutto il religioso ‘servo’ quando bisogna lavorare, stancarsi, fa così (stende la mano come per misurare un palmo) e nient’altro. Il religioso ‘servo’ ha i propri schemi, i propri confidenti, anche a tavola bisogna essere attenti alle parole perché il religioso ‘servo’ pubblica le notizie più riservate sulla famiglia religiosa. L’amore alla Congregazione non è nel suo cuore. Se parla fuori della propria Congregazione è tanto se non le tira pietre. Se sa che la Congregazione ha nemici fuori, contrarietà, rimane apatico, rimane indifferente; al contrario, ha un comportamento secondo il quale sembrerebbe addirittura godere interiormente”.

Molto diverso è ciò che ci viene chiesto. Cristo ci ha chiamati ad ‘essere figli’ e a sentirci figli della Famiglia Religiosa. Figli che, come dicevamo all’inizio, si amino “gli uni gli alti per il fatto di essere figli dello stesso Padre, fratelli dello stesso Figlio e templi dello stesso Spirito Santo, in modo da formare un solo cuore e una anima sola”. Figli che “non desiderano altro che vedere fiorire l’Istituto, vederlo estendere le sue tende sulla faccia della terra per la maggior gloria di Dio. Che vedano nella Congregazione la madre e che, dopo le cose sante, non amino niente più di lei”. Ci ha chiamato ad essere religiosi che pregano, soffrono, lavorano e si stanchino per la Congregazione ed essere sempre contenti di servire, con amore, in qualsiasi compito ci venga affidato. 

E più ancora, “se qualche volta”, continua Don Orione, “il superiore del religioso ‘figlio’ dice o fa qualcosa che non è di suo gradimento, portandolo, così, a rinunciare a se stesso, egli benedice Dio nella santa allegria”, perché sa che a “Gesù lo si ama e lo si serve sulla Croce e crocifissi con Lui, non in altro modo”.

Pertanto, colui che è ‘figlio’ dell’Istituto del Verbo Incarnato sappia che non è Paolo o Apollo colui che serve ma il Verbo Incarnato; serve l’Istituto e l’Istituto non è del fondatore, né del superiore generale, né di alcun altro superiore, ma che è del Verbo Incarnato

Cristo ci ha chiamati ad essere religiosi missionari nell’Istituto e dell’Istituto del Verbo Incarnato. Per questo calza a pennello anche per noi la domanda che il Fondatore dei Missionari della Consolata fa ai suoi: “Ma lo siete di fatto o solo di nome? Dimostrerete di esserlo veramente, se avrete lo spirito dell’Istituto e regolerete la vostra vita di ogni giorno e di ogni ora in conformità al medesimo. […] Dovete avere lo spirito dell’Istituto nei pensieri, nelle parole e nelle opere”.

Ed aggiungeva: “Non dimenticate mai che la santità a cui aspirate quali Missionari della Consolata non vuol essere una santità a capriccio, praticando ciascuno ciò che più gli piace, ma vuol essere una santità che si concretizza nel seguire le norme che vi danno i legittimi superiori, nonché la via tracciata dalle costituzioni e dal direttorio, conforme a ciò che già vi ho detto. Non tutti i mezzi sono uguali per tutti nel tendere alla perfezione. Sbaglierebbe, ad esempio, chi preparandosi ad essere religioso-missionario volesse seguire le regole dei Certosini o dei sacerdoti secolari. Ogni Istituto ha il suo carattere e i propri mezzi di santificazione. Una è la santità, ma varia ne è la forma e diverse son le vie per giungervi. Ciò dovete tenere ben presente, miei cari, allorché qualcuno, che non ha da Dio questa missione, trova che qui dentro s’insegna e si pratica diversamente da altri luoghi”.

Per questo, affermava con forza: “La prima cosa è la retta intenzione… L’Istituto non è stato fondato e non sussiste che per formare Missionari della Consolata, ad esclusione di qualsiasi altro fine, per quanto santo. Del resto, anche nei Seminari dove si vuol fare un po’ di tutto, si finisce col far nulla: né dei buoni sacerdoti né dei buoni secolari. […] Chi dunque fosse venuto nell’Istituto con altro fine da quello di farsi Missionario della Consolata, s ne allontani per amor di Dio! In coscienza, non può restarvi. Sarebbe come una pianta posta in terreno non favorevole, sarebbe come un osso fuor di posto; sarebbe cioè di danno agli altri, un ostacolo al buon andamento della casa e al raggiungimento del fine comune. Costui, o raddrizzi l’intenzione se ancora lo può, o se ne vada”.

Noi dobbiamo essere un corpo scelto, con spirito di principe, orientando l’anima ad atti grandi, non cristiani senza nervi. Chi non arriva a comprendere questo significa che non è pronto per noi. Per questo con Don Orione potremmo anche dire: “A coloro ai quali non piace la Congregazione e l’osservanza della vita in comune, che se ne vada in pace… Che non si debba dire hai moltiplicato le persone, ma non l’allegria”.

Da noi, come missionari, il Signore vuole che ci interessiamo concretamente al bene comune, ci siamo imbarcati in un’avventura comune ed abbiamo gli stessi ideali.“Noi dobbiamo essere una forza! Noi dobbiamo essere una forza nella mani della Chiesa, una forza di fede, di apostolato, una forza dottrinale, capaci di grandi sacrifici”.

Non diciamo forse che abbiamo impiegato tutte le nostre forze per la missione, che vogliamo combattere con tutte le nostre forze l’errore, che con la forza del Vangelo vogliamo andare alle culture dell’uomo per sanarle ed elevarle, e che, essendo stati chiamati ad essere uomini di fede dobbiamo portare e rafforzare nella fede i nostri fratelli?

Allora, per far questo è necessario un grande amore al Verbo Incarnato, sicuramente, ma anche un grande amore all’Istituto, molta unione e molto lavoro. A ciò ci invita il diritto proprio quando per bocca di Don Orione afferma: “‘Amate la vostra Congregazione nella sua santa finalità!… Amatela perché è vostra Madre! Datele grandi consolazioni, onoratela con la vostra vita di buoni e santi religiosi; di veri e santi suoi figli ”.

Come uno può dire che ama l’Istituto, la Chiesa e Cristo e rimanere con le mani in mano; o lamentarsi perché pensa di essere l’unico a sacrificarsi e non appoggia le iniziative dell’Istituto? 

“Chi non vuole essere apostolo, abbandoni la Congregazione: oggi, chi non è apostolo di Gesù Cristo e della Chiesa, è apostata”, dice il Direttorio di Spiritualità citando San Luigi Orione.

Tutti i santi fondatori raccomandavano vivamente l’arduo lavoro, con zelo e per amore di Cristo. Così, ad esempio, il fondatore dei Missionari della Consolata diceva ai suoi queste parole che valgono anche per noi: “Potete farvi santi senza fare miracoli, ma non senza lavorare! Senza energia non farete del bene in missione. Coraggio, energia, volontà di ferro!”.

Nello stesso modo, Don Orione, con il suo genio tanto di padre come di familiare diceva ai suoi religiosi: “Non camminate trascinandovi e non fatevi trascinare da altri… Serve che ognuno intenda che noi useremo il ‘passo apostolico’. Non solo il ‘passo cristiano’, ma anche quello apostolico. Chi non sente la forza della carità, la forza del fuoco, della apostolicità, può rimanere a casa, nel suo popolo; non deve rimanere con noi.  Chissà forse sarà un santo trappista… ma chi rimane qui, deve essere uno ‘specialista della carità’”. E “chi non volesse seguirmi, si tolga di mezzo; o altrimenti, salto oltre, faccio a meno di voi e di tanti amici”. “È una questione di vitalità, di non avere pesi morti”.

Nello stesso modo ognuno di noi deve sempre aver presente che lo spirito dell’Istituto non ha niente a che fare con l’adagiarsi per paura della donazione o per meschinità: come quella di chi dice ‘però gli altri lavorano solo 8 ore’ e congedano le anime così, o come colui che semina taccagnamente facendo “il meno possibile con la scusa di non voler cadere nell’attivismo o perché l’epoca è cattiva o perché la famiglia non forma come prima o per l’azione malsana dei mezzi di comunicazione sociale…, sa solo lamentarsi: ‘Qui non c’è nulla da fare’”. È proprio nostro il “vivere aspirando al massimo”.

Notate che nelle missioni, come in tutte le altre opere, “quando c’è buono spirito e carità, che è il precetto del Signore, tutto va bene e tutti i figli sono contenti, anche nelle privazioni, e vivono felici”. Questo chiunque lo può constatare e può comprovare che questo spirito ‘fa la differenza’.

Dobbiamo renderci conto che siamo una minaccia contro questa unità e concordia dei cuori -ovvero, contro questa “unità nel giudizio della ragione su ciò che si deve fare e unità nelle volontà, in modo che tutti vogliano la stessa”– quando per superbia cerchiamo disordinatamente la nostra eccellenza e non vogliamo sottometterci agli altri né riconoscere l’eccellenza altrui; quando non accettiamo gli insegnamenti degli altri, credendoci autosufficienti; quando cadiamo nello  spirito egoista del particolarismo, nello spirito di opposizione e di sfiducia, quando cadiamo nello spirito di riserva, di non partecipazione, di non consenso con gli altri.

Quindi, rimaniamo sempre tutti uniti tra noi e uniti nella missione perché solo così la nostra testimonianza sarà credibile. E che questa stessa carità unita all’impegno attivo per l’opera dell’Istituto ci distingua come veri seguaci del Verbo Incarnato che ci ha detto: Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri. Perché se l’unione tra i membri della Famiglia Religiosa è una potente testimonianza evangelica, la divisione tra fratelli è una pietra d’inciampo per l’evangelizzazione. 

La nostra sequela a Cristo si vive nella fratellanza. Questa fratellanza tra noi, manifestata nella carità e nel mutuo aiuto, nel fervoroso amore per l’Istituto, nel lanciarci uniti per raggiungere gli ideali dello stesso, è segno che mostra l’origine divina del messaggio che predichiamo e possiede la forza per aprire i cuori alla fede.

Conseguentemente, è un’unità ferrea, costante, allegra e paterna, una fonte di grande forza apostolica per la nostra Famiglia Religiosa che rende più efficace il nostro compito di evangelizzazione. Ancor più, quanto maggior spirito di famiglia, quanta più carità fraterna esista tra noi, tanto più efficace sarà il nostro ministero, anche individualmente parlando, perché “un uomo più un altro uomo equivale a duemila. Un uomo insieme ad un altro cresce in valore e in forza, non ha più paura e sfugge da qualsiasi trappola”. Solo così avremo più vocazioni, perché solo un sacerdozio vissuto con entusiasmo, nello spirito fraterno, può essere l’ideale di un giovane, specialmente in un tempo come il nostro, tanto prodigo di allegrie futili e di un individualismo tanto estremo. 

*     * *

Cari tutti,

Volevo terminare con alcune parole di San Giovanni Paolo II, Padre Spirituale della nostra Famiglia Religiosa, che parlando ai sacerdoti disse: “Sapete che il vostro ministero di sacerdoti non può mai essere vissuto come un affare privato, il presbyterium dovrebbe riflettere chiaramente la comunione che è la vera natura della Chiesa, l’unico Corpo di Cristo. Il Decreto Conciliare sul ministero e la vita sacerdotale parla di ‘intima fraternità sacramentale’ che unisce i sacerdoti come membra di un unico corpo sotto il Vescovo diocesano, ‘con il vincolo della carità, della preghiera e di ogni specie di collaborazione’. La carità è richiesta per mettere in pratica fra i nostri fratelli lo stesso comandamento dell’amore che predichiamo agli altri; un vincolo di preghiera affinché nessun sacerdote sia spiritualmente isolato nell’adempimento del suo ministero; la cooperazione perché, come lo stesso Decreto ci dice ‘Nessun presbitero è quindi in condizione di realizzare a fondo la propria missione se agisce da solo e per proprio conto, sotto la guida di coloro che governano la Chiesa’. Vi esorto soprattutto ad essere modelli di unità e di armonia, cosicché il gregge a voi affidato possa trarre ispirazione per vivere in pace e lavorare unito come in una sola famiglia”.

“Animo, la vita è breve, la fatica è breve e il Paradiso ci aspetta. Animo, continuiamo insieme! Gesù è con noi. Continuiamo insieme, con una sola volontà e un solo amore, insieme. È la forza della nostra vita religiosa”.

Che la Santissima Vergine Maria, prima adoratrice del Cuore ipostatico di Gesù, ci conceda di immolare ogni giorno tutta la nostra persona e tutta la nostra attività per onorare il suo Sangue con il nostro sangue, come diceva San Gregorio Nazianzeno. 

Vi mando un grande abbraccio, in Cristo, il Verbo Incarnato, 

P. Gustavo Nieto, IVE

Superiore Generale

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