Roma, Italia, 1 dicembre 2017
Lettera Circolare 17/2017
Questo sarà il segno per voi: troverete il bambino avvolto in fasce e adagiato in un presepe
Lc 2, 12
Vangelo della Messa di mezzanotte del Natale del Signore
Cari Padri, Fratelli, Seminaristi e Novizi,
Già prossimi a cominciare l’Avvento che è un tempo di “una maggiore purificazione dell’anima” come preparazione alla celebrazione dell’augusto mistero del Natale, voglio salutare tutti con grandissimo affetto. Quest’anno, tale preparazione è illuminata in modo particolare e provvidenziale dal 475º anniversario della nascita di San Giovanni della Croce, sacerdote religioso e dottore della Chiesa, la cui festa celebriamo in questo mese di dicembre.
E dico questo, perché il Mistico Dottore trovò nel mistero della notte di Natale e nell’ “annullamento di Betlemme” il nucleo e il modello della purificazione progressiva dell’anima, necessaria per scalare la cima della perfezione cristiana, la quale non è altra cosa che “imitare il più perfettamente possibile” il Verbo venuto nella carne, avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia.
Il tenerissimo mistero della nascita “del Figlio di Dio fatto uomo” –con il suo freddo, povertà e nudità– è l’immagine simbolica della notte la quale, a partire dagli scritti di San Giovanni, è venuta a indicare l’intervento di Dio che “purifica radicalmente lo spirito e lo dispone all’unione d’amore con lui”. Notte che lui considera come “esperienza tipicamente umana e cristiana” e che Dio si compiace di operare nelle profondità delle nostre anime, giacché “Egli sa tanto saggiamente e meravigliosamente ricavare dai mali il bene”.
Pertanto, la semplicità e oscurità della notte di Betlemme che lo stesso Dio scelse per nascere piccolo e nudo, è come un’icona delle virtù d’annullamento di questo Dio il cui amore sovrabbondante ha portato a farsi uomo per dare sé stesso a noi e “comunicarci le ricchezze della sua divinità”. Virtù queste della “umiltà, povertà, dolore, obbedienza, rinuncia a se stessi, misericordia e amore per tutti gli uomini” che noi dobbiamo “praticare con intensità” “in conformità al proprio carisma” e per “configurarci a Cristo” e, in questo modo, raggiungere il nostro fine come religiosi del Verbo Incarnato.
Per questo nella presente lettera circolare vi propongo di contemplare il mistero del Natale sotto i raggi di luce che irradiano le virtù dell’annullamento del Verbo nella sua nascita, guidati in questo proposito dalla dottrina del “maestro della fede e testimone del Dio vivo”, come meravigliosamente il nostro Padre Spirituale chiamava San Giovanni della Croce.
Nutro la speranza che queste linee serviranno per disporre meglio le nostre anime a ricevere il Dio Bambino “in tutta umiltà e spogliazione di sé interna ed esterna”, perché solo così Dio ci riempirà della sua ineffabile gioia e pace.
1. San Giovanni della Croce e il Natale
Nel suo Cantico spirituale, San Giovanni della Croce scrive che “la notizia delle opere della Incarnazione del Verbo e i misteri della fede, per essere opere maggiori di Dio, e che maggior amore rinchiudono in sé… producono nell’anima un maggior effetto d’amore”.
San Giovanni della Croce sperimentava tanto dal vivo il mistero del Verbo fatto carne e aveva tanto ferita d’amore la sua anima per questo amore al Dio fatto uomo, che quelli che lo sentivano “pensavano che parlasse così delle cose di Dio e dei misteri della nostra fede, come se li vedesse con occhi corporali”.
Grazie al dono della fede, tanto eminente nel santo, il mistero formava per lui un mondo vivo e reale. “Trattava familiarmente con Dio. Lo portava nel cuore e sulle labbra”. Per questo, era solito parlare “in modo altissimo del Dio fatto uomo, perché alla persona del Verbo divino fatto uomo aveva particolare affetto d’amore, e parlava di questo Signore in maniera ammirevole e con gran tenerezza”.
Questa devozione e propensione a dire “parole al cuore, bagnate in dolcezza e amore” si facevano particolarmente evidenti in San Giovanni della Croce durante il tempo del Natale. Infatti “in quei giorni, pareva trasformato e come fuori di sé. Egli, ordinariamente tanto serio, esultava e si lasciava portare da un’allegria esteriore, che si esprimeva con parole, con canti, con giochi spirituali”.
Per esempio, quando era Maestro dei novizi a Mancera de Abajo (Salamanca) “ordinava ai novi che così, all’improvviso, facessero una qualche rappresentazione del mistero; dove se dicevano qualche semplicità, ne traeva concetti del cielo”.
Un’altra volta, esercitando il suo priorato a Los Mártires de Granada –che è precisamente quando elabora la sua opera “Notte oscura”– “… fece mettere la Madre di Dio su una portantina, e, presa sulle spalle, accompagnata dal servo del Signore e dai religiosi che lo seguivano camminando per il chiostro, giungevano alle porte che c’erano in esso a chiedere ricovero per quella signora vicina al parto e per il suo sposo, che giungevano a piedi. E arrivati alla prima porta chiedendo ricovero cantarono questa strofa che il santo compose:
Del Verbo divino,
la vergine gravida,
viene camminando,
se le date luogo!
E la sua strofa si continuò a cantare alle altre porte, rispondevano loro da dentro dei religiosi che aveva messo lì, i quali seccamente li scacciavano. Il santo ripeteva loro con parole di tale tenerezza, spiegando chi fossero gli ospiti, della fanciulla prossima al parto, del tempo che faceva e dell’ora che era, che l’ardore delle sue parole e le cose alte che svelava intenerivano i cuori di chi lo udiva e stampava nelle loro anime questo mistero e un amore grande a Dio”.
Anche il convento di Segovia fu testimone della sentita devozione e vera carità che il mistero del Natale risvegliava nel Mistico Dottore. La relazione di Frate Luca di San Giuseppe ci lascia intravedere la delicatezza e diligenza con la quale San Giovanni della Croce cercava do solennizzare la Nascita di Cristo: “Era molto amico del culto divino, e così nelle feste scendeva ad aiutare a preparare gli altari e la chiesa; si rallegrava nel vederlo tutto molto adorno e ben curato, e ringraziava molto i sacrestani; si rallegrava di vedere godere i suoi religiosi nella Pasqua facendo il loro altare della Nascita, o, quanto meno, mettendo come ricordo su di esso qualche Vergine con il suo Santo Bambino fra le braccia, con il quale s’inteneriva e inteneriva i suoi sudditi”.
Tutti gli esempi sopra menzionati ci ricordano quelle parole del nostro diritto proprio che dicono: “La nascita del Verbo incarnato ci spinge, tra le altre cose, […] a vivere nell’allegria, frutto dello Spirito Santo, e conseguenza dell’Incarnazione come annunciò l’angelo ai pastori: … vi porto una buona notizia, una grande allegria per tutto il popolo”. Poiché “per l’Incarnazione del Verbo si fa credibile l’immortalità della beatitudine” e di conseguenza, “il pellegrinaggio cristiano si deve accompagnare con il canto, con manifestazioni d’allegria”.
Per questo il giorno di Natale “si deve esaltare con tutti i mezzi. Non si possono ridurre sforzi e tempo perché questo giorno sia il migliore; dev’essere aspettato e poi valorizzato e goduto”, come ci viene insegnato già dal Noviziato. Festività che deve estendersi durante l’Ottava di Natale e che dev’essere dispensatrice di allegria fra tutte le anime con le quali trattiamo.
Per noi –come lo era per San Giovanni della Croce– il mistero del Verbo Incarnato è l’eco della nostra vita spirituale: “il centro della nostra vita dev’essere Gesù Cristo”, dice il diritto proprio. Egli –con il suo annullamento totale informato dall’umiltà– è la fonte da cui emanano i principi di tutta la spiritualità del nostro caro Istituto. Egli –nel suo sommo abbassamento– è la piattaforma dalla quale “ci lanciamo arditamente a restaurare tutto in Cristo”. Questo Verbo Incarnato, nel suo “incommensurabile abbassamento, con il suo giudizio, interno ed esterno” che nel Natale contempliamo piccolo, purissimo e necessario, è il modello per “vivere la vita fraterna in comune e il nostro apostolato: nel servizio umile e nella consegna generosa, nella donazione gratuita di sé stessi mediante un amore fino all’estremo”. Egli è anche il cantico della nostra poesia “perché cantare e intonare salmi è proprio di chi ama”.
Pertanto, “la notte di Natale si trasforma così in scuola di fede e vita” dove il Dio Bambino –fragile e piccolo– si alza come “esempio insigne di pratica delle virtù della mortificazione in grado abissale, giacché, senza lasciare di essere Dio infinito, si fece uomo finito mostrandoci una umiltà, povertà, obbedienza e amore infiniti”. Infatti, in quella prima Notte, il Verbo Incarnato in persona fatto bambino e adagiato in una mangiatoia, che “essendo il creatore della razza umana si fa uomo; che dando da mangiare lui stesso dalle sua mani agli uccelli del cielo ora ha bisogno di latte per nutrirsi; che regna nei cieli e sulla terra e nonostante giace sulla paglia; che nasce nel tempo anche se esisteva prima d’ogni tempo; che essendo il Creatore delle stelle, sta sotto le stelle; che essendo il Governatore di tutta la Terra, è un esiliato in essa; che riempiendo tutto il mondo”, Lui stesso non trova posto per sé nella locanda. E ci dimostra e indica con il suo annullamento abissale che questo è precisamente il cammino per “andare dal tutto al tutto”.
2. “Partecipare dell’annullamento di Cristo”
Già nel secondo punto delle nostre Costituzioni diciamo che “desideriamo vivere in uno stato che ‘imiti più da vicino […] quella forma di vita che il Figlio di Dio scelse venendo al mondo…’”, il che fa riferimento inequivocabile all’annullamento di Nostro Signore. Per questo nella fedeltà totale del diritto proprio diciamo che è nostra ferma intenzione e ci proponiamo di “praticare, specialmente [e con ogni radicalità] le virtù che ci fanno più partecipare dell’annullamento di Cristo”. Pertanto, le virtù dell’annullamento del nostro Redentore diventano l’ornamento naturale e il distintivo principale che deve risplendere in tutti i membri del nostro caro Istituto.
Desidero, dunque, con la luce dello “Spirito Santo maestro” e in sintonia con lo stile sapienziale di San Giovanni della Croce, che lo stesso diritto proprio segnala come “grande maestro di vita spirituale” dalla cui dottrina dobbiamo imparare ad essere uomini virtuosi, commentare le virtù mortificative dell’annullamento vissute secondo la tonalità particolare del nostro carisma e spiritualità propri.
Sono varie le istanze in cui il diritto proprio enumera le virtù dell’annullamento. Torno a menzionarle qui: “umiltà, giustizia, sacrificio, povertà, dolore, obbedienza, amore misericordioso…, in una parola, prendere la croce”. Il Direttorio di Spiritualità anche le include, anche se ingloba “giustizia e sacrificio” con l’espressione “rinuncia a sé tessi” e menziona come oggetto d’amore e misericordia “tutti gli uomini”.
È da notare che la prima di queste virtù è l’umiltà. Come poteva essere in altro modo? Se lo stesso Verbo Incarnato riassunse sé stesso dicendo: sono mite e umile di cuore. Tutta la sua esistenza ci parla della sua umiltà. Perché Lui essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio.. spogliò sé stesso… e assunse la condizione di servo, divenendo simile agli uomini senza lasciare di essere Dio. Di conseguenza, se noi vogliamo imitare il più perfettamente possibile Gesù Cristo, l’umiltà dev’essere la nostra virtù fondamentale, basilare, e in certo senso la grazia di tutta la nostra vita religiosa.
“Solo se siamo umili saremo santi”. Per questo, la nostra spiritualità ci spinge a vivere questa virtù in pienezza e a esempio dello stesso Cristo che “non ebbe timore di passare per un peccatore in più”, siamo chiamati a essere “costruttori umili e sconosciuti del Regno di Dio, dalle cui parole, comportamento e vita irradi la gioia luminosa della scelta che abbiamo fatto”.
La virtù dell’umiltà, tanto importante e necessaria alla nostra vita spirituale, non lo è meno per la nostra vita comunitaria e il nostro apostolato. In effetti, la pratica dell’umiltà o la mancanza di essa nel trattare con gli altri, ha un gran peso in ambedue i campi. Per questo il diritto proprio ci chiede con paterna fermezza di “apprendere a ritenerci gli uni superiori agli altri, cercando ognuno non il suo proprio interesse, ma quello degli altri”; “sottomettendoci gli uni agli altri nel timore di Cristo; […] trattandoci gli uni gli altri con umiltà”.
Questo è l’appetito che bisogna portare ordinariamente nell’anima: quello di annullarci facendoci obbedienti fino alla morte e morte di croce. Da questo vediamo che l’umiltà è il principio della vita d’obbedienza. E se umili e obbedienti, allora ci sarà unità e vera pace e ci assicurano le Costituzioni che “passeremo nella congregazione una vita tranquilla e felice”.
San Giovanni della Croce, parlando dei veri umili, dice che questi tali “non solo ritenendo le sue cose come un nulla, ma con gran poca soddisfazione di sé ritengono migliori tutti gli altri, e sono soliti nutrire per loro una santa invidia, con Desiderio di servire Dio come loro; perché, quanto più fervore mettono e quante più opere fanno e provano gusto in esse, per il fatto di camminare nell’umiltà, tanto più conoscono ciò che Dio merita e il poco che è tutto quanto fanno per lui”.
Per questo l’autenticamente umile con “chiara coscienza che senza Cristo non può nulla” e gran dimenticanza di sé –a imitazione dello stesso Cristo– non mette pretesti vani e molto meno teme di andare nei “luoghi più umili e difficili”. Piuttosto, fondando tutto il suo entusiasmo apostolico in Gesù Cristo, con grande impeto si “dispone a morire, come il chicco di grano, per vedere Cristo in tutte le cose”. Perché precisamente “la virtù pratica del dono di sé stessi è l’umiltà”. E una volta nel posto che la Provvidenza ha assegnato loro, si sforza di essere contento anche se soffre, perché sa che “il profitto non si raggiunge se non imitando Cristo”.
Oltre a questo, convinto che per una “autentica inculturazione è necessario un comportamento simile a quello del Signore, quando s’incarnò e venne con amore e umiltà fra di noi”, nel servizio al prossimo, questo tale non è arrogante, né tagliente, “né prende una posizione di superiorità di fronte all’altro”. Al contrario, sa adattarsi ragionevolmente e mantenere in ogni momento “lo stato d’animo di chi sente dentro di sé il peso del mandato apostolico”. Un religioso così sarà veramente fecondo –spiritual e apostolicamente parlando– per quanto arida e inospitale sia la terra di missione: “Tutto sta nel saper morire! Questa è la grande scienza!”. E’ di più: vogliamo perseverare nella nostra vocazione? Siamo umili, solo così continueremo a darci.
Per questo se veramente vogliamo onorare e servire il Verbo Incarnato –come ci compete secondo la nostra vocazione– dobbiamo sforzarci di praticare la virtù regia dell’umiltà, che è la virtù propria di Nostro Signore.
Agire in altro modo, mi pare, è non aver afferrato “lo stile del Verbo Incarnato”. Per questo siamo molto prevenuti contro il pericolo di cercare “disordinatamente la propria eccellenza e non volerci sottomettere agli altri né riconoscere l’eccellenza altrui, o non accettare gli insegnamenti degli altri, credendoci sufficienti”. Guardiamo quanto diversa da quest’attitudine è quella del Dio Bambino. “Non dimentichiamo mai che ‘l’obbedienza è l’aroma del sacrificio’”.
Risulta imperativo, dunque, che “quelli che nelle nostre case di formazione si preparano a realizzare grandi opere per la gloria di Dio nelle missioni dove saranno inviati, coltivino un grande amore alle virtù che formano la base della crescita spirituale”, tra le quali la prima è l’umiltà. Perché “Dio resiste ai superbi e dà la grazia agli umili (1 Pt 5, 5). E se Dio resiste a un missionario, costei cosa potrà fare?”.
Altra virtù dell’annullamento è la povertà, che nel mistero della Nascita di Cristo risalta in modo tanto pungente lasciandoci vedere per contrasto la tenerissima Persona del Bambino deposto in una mangiatoia come il più povero dei poveri.
Le nostre Costituzioni ci spiegano magistralmente il consiglio evangelico di povertà nei punti che vanno dal 60 al 71. Lì ci viene insegnato che per raggiungere la perfezione dobbiamo “seguire nudi il Cristo nudo”. Cioè, nell’abbandono e nel distacco volontario dalle ricchezze, il che implica una vita povera di fatto e di spirito, sforzatamente sobria e distaccata dai beni di questa terra. Inoltre, dipendenti in tutto dalla Divina Provvidenza.
Il nostro è “seguire Cristo povero nel significato più profondo della sua povertà”, cioè fino all’annullamento di farsi uomo per comunicarci le ricchezze della sua divinità. Il che si mette in pratica dandosi agli altri, facendosi dispensatori di beni. Noi, che vogliamo servire Gesù Cristo, dobbiamo farlo “non come il mercenario che chiede il suo salario dopo ogni giorno di lavoro, né come un servitore che lavora stipendiato per qualche tempo per prendere poi una posizione indipendente. Dobbiamo servire Dio senza compensi, senza giorni liberi, senza consolazione e senza gloria”. In modo tale che, spogliati di tutto, cioè, di “tutto quanto non sia lo stesso Dio”, “in gran nudità di spirito e senza attaccamento alle creature”, il darsi al Verbo sia diventi tutta la nostra ricchezza.
Per questo ci si esorta al distacco totale, a “spogliarci per Dio di tutto ciò che non è Dio”. Perché come dice San Giovanni della Croce: “i beni di Dio non vengono se non in un cuore spoglio e solitario”. Pertanto, continua il santo, “Dio vuole in tal modo che il religioso sia religioso, che la faccia finita con tutto e che tutto la faccia finita con lui; perché Lui stesso vuole essere la sua ricchezza, consolazione e gloria dilettevole”. “In questa nudità lo spirito trova riposo”.
Noi, che siamo religiosi missionari, dobbiamo inoltre essere coscienti che “la testimonianza silenziosa di povertà e spogliazione […] può essere –e di fatto per grazia di Dio lo è in molte nostre missioni– un interpellare il mondo e i membri della Chiesa stessa, una predicazione eloquente, capace di toccare anche i non cristiani di buona volontà”. Come non ricordare qui gli esempi dei nostri missionari che lavorano in luoghi di particolare difficoltà e rischio, come in Medio ed Estremo Oriente, di tanti dei nostri che sono in missione in villaggi, province e paesini molto poveri, e anche quelli che si trovano nelle grandi metropoli del mondo, con un tenore di vita molto modesto ed esemplare!
Tutti –qualunque sia la nostra condizione o ufficio– dobbiamo essere “disposti a sacrificare tutto senza riserve, persuasi che nulla è così vantaggioso come abbandonarsi nelle mani di Dio”, perché qualora non ci manchi la preghiera “Dio si prenderà cura della sua opera, poiché non ha altro proprietario e non lo deve avere”.
Questo ci porta ora a trattare del sacrificio o della rinuncia a sé stessi come altra virtù che risplende nell’annullamento di Cristo e che sebbene “appartiene all’essenza della vocazione cristiana, in maniera specialissima ci corrisponde per la professione dei consigli evangelici”.
In tutto il diritto proprio “questa è l’idea clamorosa: sacrificarsi”.
Per questo, appena entrati al Noviziato –e da lì sempre di più– siamo stimolati ad andare per un “cammino di maggiore perfezione”, che il diritto proprio definisce indistintamente come quello dell’abnegazione, della morte totale al proprio io, della rinuncia a sé stessi o del sacrificarsi di cui abbiamo parlato prima. E tutto come presupposto per raggiungere la perfezione della carità, fine della vita consacrata.
Per questo, se i nostri membri devono imitare il Verbo Incarnato, le Costituzioni ci comandano di educarli “con cura singolare nell’obbedienza sacerdotale, nel tenore di vita povero e nello spirito della propria abnegazione, in modo che si abituino a rinunciare con prontezza alle cose che, pur essendo lecite, non convengono, e a farsi simili a Cristo crocifisso”.
Noi, religiosi del Verbo Incarnato, “dobbiamo morire, di fatto, all’uomo vecchio, al peccato, agli affetti peccaminosi, fino alla stessa apparenza del male”. Ma ancor più: dato che è proprio di noi vivere secondo lo spirito da principe, per il quale uno è capace di dare cose che nessuno obbliga ed astenersi dalle cose che nessuno proibisce, e senza cessare mai di aspirare a una vita più santa e più perfetta, dobbiamo morire “anche ai peccati più leggeri e alle minori imperfezioni; al mondo e a tutte le cose esteriori; ai sensi e alla cura smodata del proprio corpo; al carattere e ai difetti naturali; alla volontà propria e al proprio spirito; alla stima e all’amore di noi stessi; alle consolazioni spirituali, che un giorno Dio porterà via completamente; agli appoggi e alle sicurezze in relazione allo stato della nostra anima; a ogni proprietà in ciò che concerne la santità; cioè, vivere in completa nudità”, come il Bambino che nascerà a Betlemme.
È ciò che San Giovanni della Croce vivamente descrive in ogni sua opera: “Cristo è il cammino, e questo cammino è morire alla nostra natura nei sensi e nello spirito”. Pertanto, “quanto più ci si annichila per Dio secondo queste due parti, sensitiva e spirituale, tanto più ci si unisce a Dio e tanto più grande opera si fa. E quando resterà risolto in nulla, che sarà la somma umiltà, sarà fatta l’unione spirituale dell’anima con Dio. [La quale] non consiste, infatti, in ricreazioni né gusti, e sentimenti spirituali, ma in una morte di Croce sensitiva e spirituale, cioè, interna ed esterna”. Per questo ci si anima tanto a disporci con coraggio a passare per le purificazioni attive e passive del senso e dello spirito, volendo che questo Cristo ci costi qualcosa.
Tutto questo porta nelle nostre vite un’ordinaria sofferenza e ciò dispone alla prossima virtù dell’annientamento: il dolore.
“Il dolore è qualcosa di prezioso e d’incalcolabile valore giacché è scelto da Dio per redimerci, quando si sopporta con pazienza, si accetta come venuto da Dio e si santifica unendolo a quello di Cristo”. Con questa magnifica frase il Direttorio di Spiritualità comincia a sviluppare il tema del dolore come parte del mistero redentore di Cristo del quale dobbiamo partecipare.
“Tutta l’efficacia corredentrice dei nostri patimenti dipende dalla loro unione alla Croce e nella misura e grado di quest’unione. […] Se non impariamo a essere vittime con la Vittima, tutte le nostre sofferenze sono inutili”.
Dunque siamo chiamati a “imparare a completare ciò che manca alla Passione di Cristo con una riparazione affettiva –attraverso la preghiera e l’amore–, effettiva –compimento dei doveri di stato, apostolato…–, e afflittiva –la sofferenza santificata–, per il profitto proprio e di tutto il Corpo mistico”.
Per questo, qualunque sia la nostra pena, dobbiamo soffrire per amore a Cristo e profitto nostro, perché in fin dei conti “battenti e colpi nell’anima per più amare” e “è ciò che a tutti noi conviene di più; solo manca di applicare la volontà, affinché, così come è vero ci sembri vero”. È ciò che comunemente vogliamo significare quando diciamo che “bisogna regolare la mente”.
In seguito, e come forza concomitante di tutte le altre virtù dell’annientamento, troviamo l’amore misericordioso per tutti gli uomini.
Dicono chiaramente le Costituzioni: “‘Il sacerdote, il missionario, il monaco, è l’uomo della carità ed è chiamato a educare gli altri nell’imitazione di Cristo e nel comandamento nuovo dell’amore fraterno (cfr. Gv 15, 12). Però questo esige che lui stesso si lasci educare continuamente dallo Spirito nella carità del Signore. In tal senso, la preparazione al sacerdozio deve includere una seria formazione della carità, in particolare l’amore preferenziale, nei quali, mediante la fede, scopre la presenza di Gesù (cfr. Mt. 25, 40) e l’amore misericordioso per i peccatori’”.
La nostra spiritualità missionaria si caratterizza, di più, è ispirata e animata dalla stessa carità di Cristo, che è fatta di attenzione paterna, tenerezza, compassione, accoglienza, disponibilità e interesse per i problemi della gente. “Per poter annunciare a ogni uomo che è amato da Dio e che lui stesso può amare, [è necessario che ognuno di noi] dia testimonianza di carità verso tutti spendendo la vita per il prossimo”. Lo stesso che il dolce Cristo che nel Natale contempleremo fatto bambino per amore nostro.
Da noi, missionari del Verbo Incarnato, ci si aspetta e “si esige un amore fraterno sempre crescente verso quelli che evangelizziamo” fino a poter dire con San Paolo: portati dal nostro amore per voi, vogliamo non solo darvi il Vangelo di Dio, ma anche le nostre vite: tanto è il nostro amore per voi . Ancor più, la carità che ci si aspetta da noi deve essere –dice il diritto proprio– molto maggiore di quella di un pedagogo; è l’amore di un padre; ma soprattutto, dev’essere l’amore di una madre. Infatti, è “l’amore di Madre quello che deve animare tutti quelli che collaborano nell’azione apostolica della Chiesa per generare gli uomini a una vita nuova”.
Per questo la nostra piccola e bellissima Famiglia Religiosa, quale altro prolungamento dell’Incarnazione del Verbo, desidera anche umilmente per mezzo delle opere di misericordia di continuare a rivelare agli uomini l’amore misericordioso di Dio amando lo stesso Dio nell’amore concreto ai fratelli. Giacché come dice il dottore della fede e la notte oscura: “Alla fine ti esamineranno nell’amore”.
Solo nella pratica perseverante e fervorosa delle virtù dell’annientamento, cominciamo a ripetere nelle nostre anime quel “nulla di Betlemme” che trasfigura le nostre vite in quella del bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia. “Perché la cosa amata si fa una con l’amante; e Dio fa così con chi Lo ama”.
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Carissimi tutti: il camino di perfezione che dobbiamo percorrere ci si presenta con tutta la sua austerità e tenerezza nel mistero della Natività del Figlio di Dio che stiamo per celebrare. In questo camino angusto non resta altro che annullarsi e prendere la croce che è il bastone per poter avanzare. Che non ci spaventi l’asprezza, né si rimpicciolisca l’anima di fronte alla strettezza della porta, né retrocedano i nostri passi di fronte all’oscurità della notte, che “Dio bada alle cose di coloro che lo amano molto, senza che essi se ne preoccupino”. Avanziamo per lui con il fervore dei santi, perché “se questa vita non è per imitare Cristo, non è buona”!
Sempre molto coraggio e molta serenità nell’anima! Perché la vera Luce che nacque in un antro oscuro di Betlemme quella prima Notte domina sempre in tutte le nostre notti. Marceremo per il mondo convinti che siamo stati pensati da Dio per essere moltiplicatori di natali, cioè, moltiplicatori prodighi della Bontà infinita di Dio, che nella sua grande misericordia ebbe per sua maggiore allegria, il farsi visibile nella Persona di un bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia.
La Vergine Madre che “ammirata di tale scambio: il pianto dell’uomo in Dio, e nell’uomo l’allegria”, ci colmi di gioia ineffabile nel sapersi scelti e chiamati dal Dio Bambino in persona.
Che in questo Natale, contemplando il presepe di Betlemme, giunga al profondo delle nostre anime la lezione somma e la dolce notizia che nell’amore tranquillo il Verbo è venuto a insegnarci ad amare e donarsi. Perché l’unica cosa veramente elevante e sublime in questa vita è farsi nulla come lo stesso Dio.
Chiediamo alla Vergine che in questo Natale ci conceda la grazia di avere questa visione sapiente sulla nostra vita consacrata che ci dà la prospettiva di un Dio nato in una stalla.
Abbiate tutti un Avvento spiritualmente ricco e un felicissimo e santo Natale.
Nel Verbo Incarnato e a in sua Madre, la Vergine Santissima.
P. Gustavo Nieto, IVE
Superiore Generale