“Trasfigurare il mondo”

Roma, Italia, 1° Agosto 2017

Lettera Circolare 13/2017

Trasfigurare il mondo”

Cari Padri, Seminaristi, Fratelli e Novizi,

Il miracolo della Trasfigurazione di Nostro Signore che celebreremo prossimamente ci ricorda “il fine specifico della nostra piccolissima Famiglia Religiosa: evangelizzare la cultura, ovvero trasfigurarla in Cristo”. 

Anzi di più, è questo mistero – oltre a quello dell’Incarnazione del Verbo – quello che esprime “il nostro ‘stile particolare di santificazione e di apostolato’” e definisce marcatamente “l’identità e configurazione della nostra vita consacrata come membri dell’Istituto del Vebro Incarnato secondo la nostra propria indole e il nostro patrimonio spirituale”. 

Nella nostra vocazione di religiosi del Verbo Incarnato – che equivale a dire, la nostra vocazione a vivere un’esistenza trasfigurata – è implicita la chiamata “a rivivere e testimoniare l’unico mistero di Cristo, soprattutto negli aspetti del suo annientamente e della sua trasfigurazione”. Attuando in questo modo cerchiamo di “essere un’impronta concreta che la Trinità lascia nella storia”, come recita la nostra formula di professione. 

In questo modo si comprende che, se diciamo che è centrale nella nostra spiritualità imitare il Dio incarnato “essendo altri Cristi”, è proprio il mistero della Trasfigurazione dal quale apprendiamo il modo peculiare di trasfigurarci in Cristo secondo il nostro carisma. Per questo, la celebrazione solenne della festa della Trasfigurazione del Signore, ci ricorda ciò che ci costituisce e deve distinguerci tra le distinte famiglie religiose della Chiesa.

Da quanto detto fin qui possiamo inferire le profonde risonanze che ha questo mistero sulla nostra vita di consacrati dell’Istituto del Verbo Incarnato. Ma, principalmente, la Trasfigurazione del Signore, “illumina la nostra attitudine spirituale di fronte all’umanità di Gesù” e, pertanto, il modo specifico e peculiare con il quale portiamo avanti il nostro compito di evangelizzare la cultura, e intendiamo l’essere religiosi missionari che ci fa andare in tutte le parti a tutte le genti dando la splendente ed eminente testimonianza “che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle beatitudini”.

Allora vorrei in questa lettera circolare riferirmi a quell’aspetto singolare della nostra spiritualità che così marcatamente ci distingue nel nostro dialogo con il mondo “al quale Cristo ci manda come pecore in mezzo a lupi, e rispetto del quale San Paolo ci ammonisce dicendo: Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare”. Tema importantissimo poiché, dominare il mondo per Cristo è l’elemento essenziale non negoziabile che, se valorizzato e potenziato come conviene, sarà fonte perenne di fecondità soprannaturale per l’Istituto.

1. Contemplare e testimoniare il volto trasfigurato di Cristo

La Trasfigurazione di Cristo davanti ai suoi apostoli ci dice che il fine specifico del nostro amato Istituto è l’evangelizzazione della cultura, precisamente perché questo mistero della vita di Gesù “non è solo rivelazione della gloria di Cristo, ma anche preparazione ad affrontare la croce. Essa implica un ‘salire il monte’ e uno ‘scendere dal monte’: i discepoli che hanno goduto dell’intimità con il Maestro… tornano di colpo alla realtà quotidiana, dove non vedono altro che ‘Gesù solo’ nell’umiltà della natura umana, e sono invitati a scendere per vivere con Lui le esigenze del disegno di Dio e intraprendere con coraggio il cammino della croce”. 

Nella cima del monte Tabor, Gesù fa contemplare ai suoi apostoli la gloria del Verbo. Così noi, in riverenza alla divinità di Cristo, manifestata nella sua Trasfigurazione, cerchiamo di “vivere a fondo le virtù della trascendenza, e l’urgenza della preghiera e dell’adorazione incessanti”. Da ciò ne deriva che il dare la primazia allo spirituale sul temporale è una nota distintiva della nostra spiritualità. Pertanto, troviamo nel vivere “con grande fedeltà alla preghiera liturgica e personale, ai tempi dedicati all’orazione mentale e alla contemplazione, all’adorazione eucaristica” l’opportunità di “rivivere l’esperienza di Pietro nella Trasfigurazione: È bello per noi essere qui”. 

Poiché comprendiamo che, se il nostro lavoro pastorale vuole essere effettivo, dobbiamo anzitutto contemplare il Verbo Incarnato sotto le specie eucaristiche e unirci a Lui, “la cosa principale, la più importante da fare ogni giorno è partecipare al Santo Sacrificio della Messa”. Non potremo riprodurre nelle nostre anime i divini lineamenti senza contemplare Cristo, senza studiarlo, senza alimentarci del suo Spirito. La nostra vita consacrata come religiosi del Verbo Incarnato implica una relazione trasformante con Cristo. 

Per questo le nostre Costituzioni affermano: “La Santa Messa è l’atto liturgico per eccellenza, e ‘la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia”’, da essa ‘deriva in noi la grazia… deriva in noi, come da sorgente, e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli uomini nel Cristo e quella glorificazione di Dio, alla quale tendono, come a loro fine, tutte le altre attività”. Di consegueza, c’è una normativa in tutte le nostre comunità religiose, per la quale i nostri religiosi si dedichino all’adorazione eucaristica e alla partecipazione giornaliera alla Santa Messa, poiché questa è “‘fonte e culmine’ di tutta l’attività della Chiesa”. “L’importanza che si dà alla celebrazione della Santa Messa e l’enfasi che si dà alla vita liturgica dell’Istituto”, manifestando in esse che adoriamo la Maestà stessa, così come la “marcata devozione eucaristica” costituiscono, come tutti Voi sapete, uno degli elementi non negoziabili insieme al carisma. Ciò pone manifesta l’importanza che ha per noi la vita di preghiera. E proprio questa primazia e rilevanza che noi diamo alla vita di preghiera è quella che predichiamo e per cui esortiamo i nostri fedeli perché la conseguano.

Nel nostro contatto personale con il Verbo Incarnato, è lì che cresce l’ardente devozione che ci spinge alla missione e fa sì che il nostro lavoro apostolico abbia una vera influenza. Perché siamo convinti che, nella familiarità con il Verbo Incarnato occulto nell’Eucaristia, conosciuto nella Sacra Scrittura e insegnato dal Magistero vivo della Chiesa, si acquisisce meglio quel “buon senso cristiano” che ci dà una ‘sensibilità’ particolare per affrontare la missione e la grazia per portarla a capo. Solo se siamo impregnati dello Spirito del Verbo Incarnato ci renderemo capaci di intavolare un diaologo fecondo con le culture che siamo chiamati a evangelizzare.

Inoltre, per esprimere la primazia data alla vita di preghiera nella missione nella consapevolezza che è lo Spirito Santo il Protagonista della stessa, associamo tutti e ognuno dei nostri apostolati ai nostri religiosi contemplativi. Essi hanno un ruolo non accessorio nelle nostre missioni ma piuttosto chiave. Per questo affermiamo che “sono all’avanguardia di tutte le opere di apostolato dell’Istituto”. Di fatto, consideriamo necessario “stabilirla [la vita contemplativa] in tutte le Chiese nuove”. Questo perché siamo genuinamente convinti che senza la grazia di Dio che si impetra per la preghiera e il sacrificio, poco e nulla possiamo fare: e ai nostri monaci affidiamo non solo il pregare “per la conversione dei peccatori, le intenzioni del Santo Padre, la crescita in qualità e quantità delle vocazioni consacrate, ecc.”, ma anche il pregare “per l’ecumenismo, per la vita della Chiesa, per la promozione umana, e per [tutti gli] altri problemi che si presentano dinanzi alla realizzazione dell’ordine temporale secondo Dio e alla istaurazione del Regno di Dio nelle anime”. Per questa ragione, i nostri monaci sono in definitiva “elementi chiave dell’impegno apostolico del nostro Istituto”.

Il racconto della Trasfigurazione continua con l’apostolo Pietro che dice: Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia. Ora, è interessante notare che l’evangelista ha scritto a continuazione: Egli [Pietro] non sapeva quello che diceva. Questo evidenzia la comune tentazione di voler fare di quel ‘sentimento di gloria momentanea’ qualcosa di permanente. È la tentazione di volere un “sacerdozio senza ignominiosa vittimizzazione”. È la tentazione di pensare ‘perché andare a predicare missioni’, che equivale a ‘perché’ andare a Gerusalemme ad essere crocifisso’. È una bramosia di un sacerdozio senza sofferenza, senza combattimento, senza nemici. È la tendenza a porre “tale enfasi sulla necessità primordiale e previa dell’azione temporale, che dissove in questa la parte spirituale”. Allora, è in questa stessa scena in cui Pietro vuole catturare quella gloria momentanea, quando Cristo, Mosè ed Elia parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme, e Cristo predice ai suoi apostoli, per la seconda volta, la sua passione: Il Figlio dell’Uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini. Apprendiamo che nella nostra vita di religiosi missionari: “questa è l’idea clamorosa: sacrificarsi. Così si dirige la storia, anche se in modo silenzioso e occulto”. “Il lavoro pastorale è croce, non un motivo di fuga”.

San Giovanni Paolo II, parlando della vita consacrata, insegna che “la Trasfigurazione non è solo rivelazione della gloria di Cristo, ma anche preparazione per affrontarne la croce. Essa implica un ‘ascendere al monte’ e un ‘discendere dal monte’: i discepoli che hanno goduto dell’intimità del Maestro, avvolti per un momento dallo splendore della vita trinitaria e della comunione dei santi, quasi rapiti nell’orizzonte dell’eterno, sono subito riportati realtà quotidiana, dove non vedono che ‘Gesù solo’ nell’umiltà della natura umana, e sono invitati a tornare a valle, per vivere con Lui la fatica del disegno di Dio e imboccare con coraggio la via della croce”. 

Per questo il mistero della Trasfigurazione di nostro Signore “illumina la nostra attitudine di fronte all’umanità di Gesù, di praticare con intensità ‘le virtù dell’annientamento: umiltà, giustizia, sacrificio, povertà, dolore, obbedienza, amore misericordioso…, in una parola: prendere la croce’”. Il che “deve lasciare la sua impronta, in modo particolare, nella maniera di praticare i voti”. E così diciamo con convinzione che “la [nostra] fedeltà all’unico Amore si manifesta e si rafforza nell’umiltà di una vita nascosta, nell’accettazione delle sofferenze per completare ciò che nella propria carne manca ai patimenti di Cristo (Col 1, 24), nel sacrificio silenzioso, nell’abbandono alla santa volontà di Dio, nella serena fedeltà anche davanti al declino delle forze e del proprio ascendente”.

Questo mistero della vita di Cristo, ci lascia vedere che “la divinità di Gesù va insieme alla croce; [e che] solo in questo legame riconosciamo Gesù in modo giusto. Ciò l’abbiamo assunto in maniera tale, che il mistero della Trasfigurazione si converte per noi – secondo il detto del Venerabile Arcivescovo Fulton Sheen – “nel perfetto esempio di come la religione deve relazionarsi con il mondo”. 

Così come il Verbo dopo essersi lasciato contemplare da Pietro, Giacomo e Giovanni li fa scendere alla valle, per servire la Chiesa, rappresentata nel padre di un bambino indemoniato, così noi non concepiamo un sacerdozio che viva ‘disconnesso’ dalle realtà umane, circoscritto alla sacrestia della parrocchia, o alla sicurezza di un’aula di lezioni, né che accetti la comodità che si nasconde, piuttosto che sfidare con la verità del Vangelo quelli che si oppongono con falsità allo stesso Cristo e alla sua Chiesa.

Nemmeno siamo d’accordo con quelli che dialetticamente oppongono la vita religiosa alle opere di apostolato, oppure, ridicolizzano e perfino ostacolano ogni iniziativa per nascondere la loro mancanza di zelo o fare scudo al loro confort. A quelli che la pensano così rispondiamo con le parole di San Giovanni Paolo II: “La fede si rafforza dandola!’. 

Il Concilio Vaticano II diceva: “Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile ma che cerchiamo quella futura, pensano che per questo possono trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno. A loro volta non sono meno in errore coloro che pensano di potersi immergere talmente nelle attività terrene, come se queste fossero del tutto estranee alla vita religiosa, la quale consisterebbe, secondo loro, esclusivamente in atti di culto e in alcuni doveri morali. La dissociazione, che si costata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverata tra i più gravi errori del nostro tempo.”. 

La stessa cosa ricordava Mons. Alessandro Staccioli, O.M.I., Vescovo Segretario della Pontificia Unione Missionaria: “Oggi ormai non è più il tempo, sebbene non lo sia stato mai, limitarsi solo a conservare la fede. È tempo di Missione: di uscire dalla tenda, fuori dai muri, di avventurarsi ed essere presenza umile e valorosa di Cristo Redentore di tutta l’umanità”. 

Questo non può far altro che aprire passo dopo passo le porte della nostra anima perché scaturisca sovrabbondante il fervente desiderio di non “essere schivi all’avventura missionaria”. Pertanto, senza perdere di vista Gesù solo e senza timore a prodigarci e consumarci per le anime, è proprio di noi il lanciarci con impeto alla missione evangelizzatrice. 

È quell’amore grande e vivo per Gesù Cristo, che ci sforziamo di coltivare, che non solo alimenta la nostra vita spirituale, ma ci “serve da modello per l’esercizio generoso del nostro ministero”. Perché “Dobbiamo andare nel mondo per convertirlo e non per mimetizzarci in esso. Dobbiamo andare alla cultura e alle culture dell’uomo non per convertirci a queste, ma per sanarle ed elevarle con la forza del Vangelo, facendo, analogamente, ciò che fece Cristo: ‘Soppresse il diabolico, riconobbe l’umano e gli comunicò il divino’”. 

Per questo è necessario saper scoprire e discernere tutto ciò che in una cultura è autenticamente umano, tutto ciò che è vero, nobile, bello, tutto ciò che, in definitiva, possa essere assumibile perché è una preparazione per il Vangelo, un “seme del Verbo”. Per questo quei semina Verbi reclamano e tendono alla rivelazione completa dello stesso Verbo, cioè, tendono per la loro stessa natura alla pienezza della verità. E questo è un punto dal quale partire nella vasta opera dell’evangelizzazione e del dialogo autentico con le culture, dialogo che trova il suo posto teologico proprio dentro la missione evangelizzatrice della Chiesa

In questo senso i Padri Capitolari avvertivano nel 2007: “Se abbiamo sempre dinanzi il mistero dell’Incarnazione sapremo evitare dialettiche ed assumere ciò che è autenticamente umano… Perché, così come ogni eresia cristologica parte da un errore nella concezione del mistero dell’Incarnazione, così anche può accadere nella nostra vita e apostolato”. 

Dal comprendere la divinità e preesistenza del Verbo che prende una natura umana completa e perfetta, unendola alla sua persona divina per assunzione, sorge “il fervore per portare la grazia della Redenzione a tutta la realtà: all’uomo, a tutto l’uomo e a tutti gli uomini, al matrimonio e alla famiglia, alla cultura, alla vita politico-economico-sociale, alla vita internazionale dei popoli con speciale riferimento al tema della pace, ovvero, a tutti i grandi problemi contemporanei”. 

Tutti ricorderanno ciò che, in consonanza con il Magistero della Chiesa, ci è stato insegnato: “La corretta intelligenza del mistero adorabile dell’Incarnazione del Verbo è anche la chiave di volta per intendere e costruire tutto l’ordine temporale umano, la sua cultura e la sua civilizzazione. Confessare l’autentica e integra condizione umana di Gesù, assunta dal Verbo eterno di Dio, permette di ‘recuperare la dimensione del divino in ogni realtà terrena’. Come ricorda San Giovanni Paolo II, Cristo all’assumere nella sua umanità tutto ciò che è autenticamente umano, ne risulta che ‘nessuna attività umana è estranea al Vangelo’. Per questo è ineludibile la chiamata a sottomettere per Nostro Signore tutto l’umano: ammesso che Lui è l’unico che mette in comunicazione gli uomini con Dio, ‘è necessario che tutta la cultura dell’uomo sia penetrata dal Vangelo’”.

Questo, così compreso, fa che ognuno di noi – dal posto che gli tocca e secondo le sue capacità – cerchi di fare che la redenzione arrivi a tutta la realtà autenticamente umana, in modo tale che “tutta la vita pubblica e sociale dei popoli si subordini a Dio come al suo fine ultimo”. Non per cercare regni temporali, niente di questo, ma perché così ce lo comanda lo stesso Cristo e ce lo detta il senso comune; inoltre dalle ragioni filosofiche, teologiche e dagli insegnamenti della storia che potremmo citare. Tutto questo senza confondere mai gli ambiti propri che gli corrispondono allo Stato e alla Chiesa nel servizio dell’uomo.

È molto distante da noi l’essere avviluppati nel sociale dimenticandoci la primazia dello spirituale. Poiché sebbene sia certo che il nostro non è un sacerdozio che vive solo sulla cima del monte Tabor, nemmeno è quello che vive per sempre rivolto alla valle. Piuttosto, il nostro è contemplare il volto trasfigurato di Cristo, per dare testimonianza di lui, il che esige da noi la conversione e la santità di una esistenza trasfigurata e, attuando in questo modo, portare le anime a Dio. 

Noi non poniamo l’accento in “questo mondo” – presentando un messaggio che in realtà è “un intruglio di soprannaturale e naturale” e che produce solo cristiani “inginocchio dinanzi al mondo” – ma la nostra enfasi è – di parola e per opere – nel mondo futuro, nella vita eterna. Nemmeno crediamo nella presentazione rovesciata che fanno alcuni per cui: “invece di Dio, l’uomo… invece di amore a Dio amore al prossimo… invece di un messaggio di salvezza un messaggio sociale… invece della Croce l’apertura al mondo… invece della verità assoluta la verità del tempo”. 

Piuttosto, fedeli al Verbo Incarnato, che stabilì le due leggi, quella dell’amore a Dio e quella dell’amore al prossimo come inseparabili, noi lavoriamo a favore di una vera civilizzazione. Poiché come viene espresso molto bene nel nostro diritto proprio: “se nella vita si omette del tutto l’attenzione dell’altro, volendo essere solo ‘pietoso’ e compiere i ‘doveri religiosi’, appassisce anche la relazione con Dio. Sarà solamente una relazione ‘corretta’, ma senza amore. Solo la disponibilità per aiutare il prossimo, per manifestargli amore, ci rende sensibili anche dinanzi a Dio. Solo il servizio al prossimo apre gli occhi a ciò che Dio fa per noi e e al grande amore che ha per noi”. In questo senso, “le opere di misericordia sono uno strumento atto per il compimento del fine specifico del nostro Istituto, perché ci permettono l’evangelizzazione mediante la testimonianza di vita e rendono possibile un grande movimento di adesione alla dottrina di Cristo”.

Il nostro non è dare “soluzioni tecniche”, ma evangelizzare promuovendo lo sviluppo delle persone, non in qualsiasi modo ma attraverso l’educazione delle coscienze. Noi dobbiamo vivere con la stessa preoccupazione del Verbo Incarnato: salvare l’uomo. Il nostro ministero sacerdotale rimarrebbe vuoto di contenuto se, nel tratto pastorale con gli uomini, ci dimenticassimo della dimensione soteriologica cristiana (come succede sfortunatamente nelle forme riduzioniste di esercitare il ministero come se si trattasse di un semplice funzione di semplice aiuto umano, sociale o psicologico). In cambio, noi ci riconosciamo inviati agli uomini per fargli scoprire la loro vocazione di figli di Dio, per svegliare in essi l’ansia della vita soprannaturale e della vita eterna; per esortare alla conversione del cuore, educando la coscienza morale e riconciliando gli uomini con Dio mediante il sacramento della confessione.

E benché ancora rimanga molto più da fare, dobbiamo ammettere con tutta umiltà e ogni gratitudine a Dio che è notevole lo sforzo che fanno i nostri religiosi dai loro distinti posti affinché “all’elevazione dell’uomo [appartenga] non soltanto la promozione della sua umanità, ma anche l’apertura della sua umanità a Dio”. 

Menziono qui, come esempi illustrativi, benché siano molti quelli che si potrebbero citare, l’importantissimo apostolato intellettuale di coloro che lavorano al Progetto Culturale “Cornelio Fabro”. Anche tutto il lavoro intellettuale che silenziosamente si realizza per mettere a posto un’intelligenza cattolica di cui c’è tanto bisogno nella nostra società, per la predicazione che denuncia lo spirito del mondo, per le pubblicazioni, o attraverso gl’insegnamenti impartiti nei Seminari e Case di formazione religiosa, e tante altre iniziative. Gli Esercizi Spirituali genuinamente ignaziani che si predicano con tanto frutto in tutte le parti (al punto in cui non c’è mese dell’anno in cui qualcuno dei nostri non stia predicando Esercizi in qualche parte del mondo). Inoltre dello stupendo lavoro di promozione umana che portano avanti tanti dei nostri nelle distinte Case di Carità, e Rifugi dell’Istituto in luoghi di grande necessità. Sono lodevoli anche tutte le iniziative intraprese per asservire e promuovere la cultura attraverso l’arte, come la musica o la pittura, insegnando agli uomini quella “via pulchritudinis” che gli permetta di rimontarsi a Dio. 

Cosicché – conformemente all’insegnamento della Chiesa – noi intendiamo che l’ambito del regno di Cristo “è doppio, personale e sociale”. Per essere personale è nostro intento deciso far sì che Lui regni “sulle intelligenze perché è la Verità; che regni sulle volontà perché è la Bontà; e che regni sui cuori perché è Amore”. E che regni anche socialmente, poiché da questo punto di vista “non v’è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli. È Lui solo la fonte della salute privata e pubblica”, come risulta esplicitamente nel diritto proprio. Benché non ci sia bisogno di dirlo, da ciò ne segue che è necessaio che lui regni prima su di noi.

Già alcuni decenni fa Papa Pio XII avvertiva: “Il ‘nemico’ si è adoperato e si adopera perchè Cristo sia un estraneo nelle Università, nella scuola, nella famiglia, nell’amministrazione della giustizia, nell’attività legislativa, nel consesso delle nazioni, là ove si determina la pace o la guerra.”. 

“Per questo non vogliamo ‘lasciare nulla di intentato perché l’amore di Cristo abbia il supremo primato, nella Chiesa e nella società’”. E tutto il nostro “lavoro missionario e apostolico si fonda sulla convinzione che è necessario che Egli regni”. Perciò ci risulta incontenibile il desiderio “che tutta la cultura dell’uomo sia penetrata dal Vangelo ” ammesso che “nessuna attività umana è estranea al Vangelo”, per il quale, la missione è per noi sinonimo di “recuperare la dimensione del divino in ogni realtà terrena”.

2. Trasformare con la forza del Vangelo

Questa concezione del lavoro missionario, con la marcata e onorata spiritualità che ci distingue come Famiglia Religiosa, fa sì che ci avviciniamo alle culture anche per evangelizzare in un modo specifico.

Chiaramente il nostro Direttorio di Spiritualità insegna: “Grazie all’insegnamento di Cristo, sappiamo che esiste un’umanità contraria alla fede e al dono della grazia, che il Signore stesso chiama ‘mondo’.[…] Tuttavia questa opposizione non deve tradursi in timore o disprezzo, dal momento che se si ha coscienza di quanto il Signore vuole, si avverte anche il dovere di evangelizzazione e l’urgenza della missione. Per questo non basta un atteggiamento semplicemente conservatore, ma è necessaria anche la diffusione e l’annuncio del deposito della fede, in conformità al mandato dello stesso Cristo. E ‘questo impulso interiore di carità’ si chiama dialogo”. 

Questo dialogo richiede virtù particolari, come insegna il Beato Paolo VI nella Lettera enciclica Ecclesiam Suam, ripresa nel nostro Direttorio di Spiritualità: “la chiarezza prima di tutto: il dialogo suppone ed esige l’intelligibilità, è uno scambio… Inoltre, l’affabilità: … il dialogo non è orgoglioso, non è graffiante, non è offensivo. La sua autorità è intrinseca per la verità che espone, per la chiarezza che diffonde, per l’esempio che propone; non è un mandato né un’imposizione… la fiducia, tanto nel valore della propria parola come nella disposizione per accoglierla da parte dell’interlocutore; promuove la familiarità e l’amicizia… Infine la prudenza pedagogica che considera tanto le condizioni psicologiche e morali di chi ascolta… e si sforza di conoscere la sensibilità dell’altro e adattarsi ragionevolmente e modificare le forme della propria presentazione per non esserle inopportuno e incomprensibile. Inoltre, manifesta, un proposito di correttezza, di stima, di simpatia, di bontà da parte di chi lo instaura; esclude la condanna aprioristica, la polemica offensiva ed abituale, la vanità d’inutile conversazione… Rispetta la dignità [dell’altro] e la sua libertà, mira tuttavia al suo vantaggio, e vorrebbe disporlo a una più piena comunione di sentimenti e di convinzioni… Suppone… in noi… lo stato d’animo di chi sente dentro di sé il peso del mandato apostolico”.

In maniera tale che “la nostra piccola Famiglia Religiosa non deve essere mai ripiegata su se stessa”, ma piuttosto “aperta alla dinamica missionaria ed ecumenica dal momento che è stata inviata per annunciare e testimoniare, attualizzare ed estendere il mistero della comunione che la costituisce; a riunire tutti e a tutto in Cristo”. Questo significa, cari tutti, l’elemento essenziale non negoziabile: lavorare al fine di sottomettere per Gesù Cristo tutto ciò che è autenticamente umano. 

Sia il dialogo che l’annuncio sono considerati come elementi essenziali e forme autentiche dell’unica missione evangelizzatrice della Chiesa e ambedue si orientano verso la comunicazione della verità salvifica. E come avvertiva saggiamente San Giovanni Paolo II, “non si tratta di eleggere uno e di ignorare o rifiutare l’altro”. Ambedue sono intimamente legati, ma non sono intecambievoli.

Per annuncio intendiamo, “una chiara proclamazione che, in Gesù Cristo… è offerta ad ogni uomo la salvezza”. Per questo, ‘“non vi è vera evangelizzazione se non vengono proclamati il Nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il Regno e il mistero di Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio’”. 

A sua volta, se siamo convinti della fede che annunciamo, dobbiamo essere aperti al dialogo, essendo capaci di approcciare temi con uomini che non sono convinti, o che hanno altre convinzioni, perfino sulla propria verità della rivelazione. Questo è così profondamente radicato in noi che è incongruente con il nostro coompito di evangelizzare l’indifferentismo. Piuttosto, “con tutto il rispetto per la persona umana e la sua coscienza, rispetto che va necessariamente unito con il senso di responsabilità alla verità stessa e il dovere di una ricerca sincera della verità da parte di ognuno, dobbiamo dirigerci a ogni uomo”. Poiché il vero dialogo fa sì che la fede diventi viva e vivificata dall’amore. 

Per noi “è necessario esercitare l’apostolato nei chiamati ‘aeropaghi moderni’” e tra vari che potrei menzionare, segnalo l’importantissimo e “vastissimo aeropago della cultura, delle università, dell’investigazione scientifica, delle relazioni internazionali che favoriscono il dialogo e conducono a nuovi progetti di vita”.

Tutto questo ha certamente varie conseguenze pratiche per noi. Ne menziono solo alcune:

– L’imperiosa necessità di una formazione solida che non ceda alla “tentazione di diluire il messaggio del Vangelo per presentarlo senza la sua specificità salvifica”. Poiché come consta nel nostro diritto proprio: “[L’evangelizzazione] perderebbe la sua ragione di essere se si sviasse dall’asse religioso che la dirige: anzitutto il regno di Dio, nel suo senso pienamente teologico”. Per questo ci prepariamo e formiamo, procurando una dimensione missionaria universale, con una formazione dottrinale che abbracci l’universalità della Chiesa e la diversità dei popoli, inculcando nei nostri la disponibilità di servire tutta la Chiesa, bandendo ogni limitazione geografica e culturale e perfino superando il proprio rito. Equiparando questa a una formazione spirituale e morale che modelli in noi il tempio sacerdotale necessario che ci renda capaci di realizzare grandi opere per la gloria di Dio senza fallire davanti alle difficoltà.

Noi, essendo fedeli alla nostra spiritualità, invece di declamare e criticare di fronte alla problematica sociale e alle crisi, dobbiamo vedere proprio in ciò una grande opportunità e con fede intrepida dobbiamo metterci al lavoro per dare una soluzione positiva, e dal Vangelo, a ogni situazione.

– La presentazione di un messaggio di chiara identità cattolica, fedele alla trasissione dell’insegnamento ricevuta da Cristo e conservata nella Chiesa. “Questa fedeltà è l’asse centrale dell’evangelizzazione”. Il compito di evangelizzare è un atto profondamente ecclesiale e solo essendo fedeli al Magistero vivo della Chiesa saremo pronti per ogni opera buona. Pertanto, il nostro è un annuncio “chiaro e inequivoco” di Cristo e della sua dottrina. Tale presentazione del messaggio evangelico richiederà frequentemente un prudente, serio e competente adattamento affinché “l’evangelizzazione si porti a capo in un linguaggio che gli uomini comprendano”. 

Da quanto detto risulta “imprescindibile” prepararsi e preparare bene il messaggio che si deve trasmettere, in maniera molto speciale i sermoni; stando sempre attenti ai “segni dei tempi” per illuminare le anime nel tempo e nel momento in cui ne hanno bisogno. Ciò esige “essere aggiornato nell’informazione sulla realtà del suo tempo, sul Magistero contemporaneo della Chiesa, specialmente del Papa, e sui suoi pronunciamenti riguardo alle questioni di attualità”.

Con quanta soddisfazione vediamo il notevole sforzo di tanti dei nostri per apprendere la (le) lingua (lingue) del luogo di missione e per impregnare il Vangelo e lo spirito dell’Istituto in ognuna delle culture dove si trovano a missionarie.

– Deve essere un annuncio umile e rispettoso, benché non sminuito, né vergognoso, né trascurato, né molto meno prepotente o pedante. Perché “l’annuncio di Gesù Cristo non è arroganza, ma opera di giustizia e di carità”. Se dalla Trasfigurazione del Signore apprendiamo il modo di trasfigurare il mondo allora, “dobbiamo sforzarci di vivere in pienezza il radicalismo dell’annientamento di Cristo e della sua condizione di servo”. Nulla ha a che vedere con il nostro modo di evangelizzare quella attitudine di superiorità – che può manifestarsi a livello culturale – e che fa sì che le persone vedano l’annuncio del Vangelo come un’imposizione, o peggio ancora, che vedano la missione evangelizzatrice come se fosse la distruzione della propria cultura. Totalmente il contrario! 

Il compito di evangelizzare portato a capo dal nostro Istituto, si fonda e ha come modello di inculturazione il mistero dell’Incarnazione del Verbo di Dio. Poiché “così come il Verbo ha assunto la natura umana nella sua unica persona divina – unione di assunzione che fa rimanere integra la natura umana di Cristo e a sua volta la eleva alla dignità di essere la natura umana della persona divina del Verbo -, analogamente il Vangelo assume le culture che devono essere evangelizzate, le quali, rimanendo integre nei propri valori culturali, allo stesso tempo si consolidano, rinnovano e perfezionano con la ricchezza della grazia di Cristo e della buona novella del Vangelo.”. 

Stando così le cose, “il Vangelo mediante l’inculturazione entra in una profonda comunione con le culture, attraverso una relazione reciproca che, senza confusione, nel rispetto della sua propria autonomia, allo stesso tempo assume e trasforma con la sua forza divina tutti i valori autenticamente umani presenti nelle culture, raggiungendo in questo modo un vincolo unico ed una sintesi vitale che arricchisce e perfeziona le culture e la Chiesa mediante nuove espressioni culturali del suo unico messaggio evangelico.”.

Dunque sosteniamo che si deve assumere tutto ciò che abbia dignità o necessità, pertanto, tutto ciò che è autenticamente umano. Da questo ne segue che non sono assumibili il peccato, l’errore e tutti i suoi derivati. Non può esserci unità a costo della verità. Non c’è santità senza purezza dell’anima. Nemmeno si può assumere l’inumano, né l’antiumano nè l’infraumano. Non sono assumibili l’irrazionale, l’assurdo, ecc..

E quell’assumere l’umano non deve essere solo apparente, ma reale ed è reale quando trasforma veramente l’umano in Cristo, elevandolo, dignificandolo, perfezionandolo. Il che è nota distintiva del nostro Istituto.

Regge qui quanto abbiamo detto nella nostra Circolare anteriore, e che è chiaramente insegnato in tutta la tradizione della Chiesa, da Sant’Ireneo fino al Concilio Vaticano II e nel magistero degli ultimi Pontefici, e anche nel nostro diritto proprio: “ciò che non è assunto non è redento”. E questo in analogia con l’augusto mistero dell’Incarnazione del Verbo, perché il Verbo assunse una natura umana completa e perfetta. 

Ricordo una volta quando un Cardinale negli Stati Uniti mi disse: “Questa è la cosa meravigliosa dell’IVE: Loro prendono una parrocchia che si sta per chiudere, che nessuno vuole prendere per il fatto di essere un luogo molto difficile, la gente molto povera… ed essi la trasformano in qualcosa di meraviglioso! La fanno fiorire per Dio. Abbelliscono il tempio, aprono le sue porte, ci sono molte confessioni, molti sacramenti… che meraviglia!”.

Un aspetto di non minor importanza riguarda il comprendere la missione come occasione per dare testimonianza. Nella Sacra Scrittura testimonianza equivale a martirio. Allora perfino quando il martirio non implichi spargimento di sangue, implicherà sempre separazione dal mondo. Perché uno non può dare testimonianza contro ciò con cui si identifica.

Per noi “il dialogo apostolico parte dalla fede e presuppone una ferma identità cristiana”. Agire in altro modo sarebbe un’incoerenza e un grave errore. Poiché non si può essere fedeli a Gesù Cristo ed essere fedeli al mondo. Sono incompatibili due fedeltà inconciliabili. Già lo disse lo stesso Verbo Incarnato: Nessuno può servire due padroni….

Tutte le nostre opere le vogliamo fare secondo lo Spirito di Cristo, in modo tale, che coloro che le vedano siano portati a Dio. Allegri marciamo alle missioni poiché fedeli al mandato di Cristo di essere sale della terra e luce del mondo siamo disposti perfino al martirio per dare “testimonianza pubblica della nostra separazione dal mondo”. Allora, “lo ‘stare nel mondo’ ha senso per noi solo quando dipende dal ‘non essere del mondo’. Solo così si può essere veramente sale della terra e luce del mondo, altrimenti diverremmo sale insipido e lucerna sotto il moggio”. 

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Cari tutti: sia sempre il nostro obiettivo quello di ottenere una felice sintesi tra l’annuncio del Vangelo e il dialogo con la cultura del popolo che evangelizziamo. Che in ogni luogo di missione ci distinguiamo per l’equilibrio tra la chiarezza dottrinale e la prudente azione pastorale. Facendo vivi sforzi non solo per l’apprendimento profondo della lingua, ma anche per ciò che concerne l’assunzione dello stile di vita e dei costumi delle culture che evangelizziamo.

Tutto ciò, lo impetriamo al Verbo Incarnato per intercessione della sua Santissima Madre sotto la cui impronta vogliamo “trasfigurare il mondo” per Dio.

Infine, vorrei fare una menzione speciale e raccomandare alle preghiere di tutti, il degnissimo lavoro dei nostri missionari in paesi a minoranza cattolica o in terre dove si perseguita la nostra fede. Perché essi ci ricordano “che la migliore testimonianza che potremo dare come missionari sarà il dono della propria vita fino ad accettare la morte per testimoniare la fede in Gesù Cristo e l’amore al prossimo”.

Felice giorno della Trasfigurazione del Signore!

Vi saluto in Cristo, Verbo Incarnato e sua Madre la Vergine Santissima, 

P. Gustavo Nieto, IVE

Superiore Generale

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