Roma, Italia, 1 marzo 2018.
Lettera Circolare 20/2018
“Il sacerdote dev’essere anzitutto padre”
Costituzioni, 119
Cari Padri, Fratelli, Seminaristi e Novizi,
Da poco più di un mese abbiamo celebrato la festa di San Giovanni Bosco, sacerdote; patrono dei nostri Oratori e insigne ispiratore di tante pagine del nostro diritto proprio. Riguardo a lui, i suoi biografi raccontano che una volta, Felice Reviglio, un suo ex alunno, gli domandò: “Don Bosco, ci dica: Come possiamo ripagarle tutto ciò che ha fatto e sofferto per noi?” E il santo rispose: “Chiamatemi sempre padre, e mi farete felice”.
Chiunque legga i suoi scritti non tarderà a persuadersi che ogni pagina lascia intravedere “un padre che dà libero corso ai suoi affetti paterni mentre parla ai suoi figli amati ai quali apre interamente il cuore per soddisfare la sua richiesta e istruirli anche nella pratica delle virtù”.
Motivato dal suo esempio e volendo arrivare a Voi con una parola d’esortazione e affettuoso incoraggiamento mi è sembrato opportuno dedicare la presente lettera circolare al tema della paternità sacerdotale.
1. Partecipazione alla paternità divina
Fra Luigi di Leone nel libro “I nomi di Cristo” scrisse: “in forza dei termini correlativi che tra loro corrispondono, segue necessariamente che dove c’è nascita c’è figlio, e dove c’è un figlio, c’è anche un padre. Così i fedeli, che nascendo di nuovo [secondo le parole di Cristo a Nicodemo: In verità ti dico che chi non rinasce dall’alto non può vedere il Regno di Dio.] cominciano a essere nuovi figli, hanno per forza un nuovo Padre, la cui virtù ci genera; e questo Padre è Cristo. Per tale motivo è chiamato Padre del secolo futuro, perché è il principio originale della nostra generazione seconda e beata, e dell’innumerevole moltitudine di discendenti che nasceranno da essa”.
Per questo il Venerabile Arcivescovo Fulton Sheen diceva che il crescete e moltiplicatevidella Genesi è una legge per la vita sacerdotale non meno che per la vita biologica. E continua dicendo: “Dio detesta la sterilità. Egli castiga la disobbedienza con l’infertilità. Quando promette al suo popolo una benedizione lo fa in termini di fecondità: Non vi sarà nella tua terra donna che abortisca o che sia sterile.. Solo quelli che camminano con il Signore e si lasciano guidare dallo Spirito sono benedetti con il dono della fecondità”.
In effetti, la fecondità, il generare e portare frutti evidenziano gli insegnamenti della nostra fede e di tutta la vita della Chiesa. Analogamente al modo in cui Dio generò suo Figlio Unigenito e innumerevoli figli adottivi per la grazia, e la Vergine Santissima concepì non solo Cristo, ma anche tutti i suoi membri, tutti questi altri figli che inoltre le sarebbero stati affidati sul Calvario nella persona di Giovanni, così anche gli Apostoli seppero generare figli spirituali e allo stesso modo dobbiamo fare noi.
San Paolo, per esempio, descrive i convertiti come il frutto della sua generazione apostolica: sono io quello che li ha generati in Cristo Gesù, mediante la predicazione della Buona Novella. E chiama l’apostolo Timoteo il suo amatissimo figlio nella fede.
Similmente, l’apostolo Giacomo ci assicura che Dio ci ha generati nella verità dicendo: Egli ha voluto generarci per la sua Parola di Verità, affinché siamo come la primizia della sua creazione.
E Giovanni enfatizza il tema della redenzione ricordandoci che la generazione carnale non è nulla in confronto alla generazione spirituale della grazia: Essi non dal sangue, non della carne, né da volontà di uomo, ma da Dio furono generati.
Allora, parlare della paternità spirituale è parlare anzitutto del mistero della persona di Dio Padre, di Colui dal quale viene ogni essere e dal quale procede ognuno di noi, che non esistevamo e in un dato momento abbiamo cominciato a esistere. Per questo, ogni paternità che voglia imitare quella di Dio è paternità che fa essere e accompagna, che spinge, valorizza e custodisce la libertà dell’altro. Paternità spirituale che non è riservata esclusivamente al sacerdote, ma che può essere esercitata da qualsiasi religioso. Di fatto, il diritto proprio fa riferimento a come i nostri fratelli religiosi missionari devono tradurre “la loro consacrazione in povertà, castità e obbedienza per il Regno in molti frutti di paternità secondo lo Spirito”.
Pertanto, possiamo affermare che anche la nostra paternità spirituale è una “partecipazione singolare alla paternità di Dio”. Per questo non c’è nessun’altra forma più appropriata per rivolgersi a un sacerdote che chiamarlo “padre” perché enfatizza la intima relazione del sacerdote con Dio Padre, Colui dal quale procede ogni paternità in cielo e in terra.
Noi, essendo sacerdoti, abbiamo “l’obbligo della continenza perfetta nel celibato” non perché la procreazione secondo la carne sia qualcosa di cattiva ma perché vogliamo essere “l’uomo per gli altri”. Papa Pio XII diceva: “il sacerdote, per la legge del celibato, lungi dal perdere la prerogativa della paternità, l’aumenta immensamente, senza generare figli per questa vita passeggera, ma per quella che deve durare eternamente”.
Perciò possiamo dire “che noi rinunciamo alla paternità ‘secondo la carne’, affinché maturi e si sviluppi in noi la paternità ‘secondo lo spirito’, che a livello umano è simile alla maternità”, facendo con ciò ultimo riferimento “ai dolori del partoche in molte occasioni soffrono quelli che sono implicati nel processo di ‘generazione’ e di ‘rigenerazione’ dell’uomo per opera dello Spirito datore di vita”.
È l’amore indiviso a Cristo il motivo per il quale noi “rinunciamo liberamente al matrimonio per poterci dedicare con più facilità e più interamente alla salvezza del prossimo”. È nell’amore di Cristo dove risiede la ragione ultima per la quale i nostri religiosi spendono le loro vite servendo i poveri e i malati, unendosi alle loro disgrazie e dolori, affezionandosi paternamente a ognuno di essi. “È quello stesso amore, quello che porta specialmente coloro che fanno una vita contemplativa a offrire a Dio per la salvezza dei loro prossimi, non solo le loro preghiere e suppliche, ma la loro propria immolazione”.
Per questo la vocazione pastorale dei sacerdoti è grande giacché “è diretta a tutta la Chiesa” e, di conseguenza, è anche missionaria. San Giovanni Paolo II in una delle sue lettere ai sacerdoti ci diceva: “Se qualcuno fra di voi dubita del senso del suo sacerdozio, se pensa che è ‘socialmente’ infruttuoso o inutile, mediti questo!”.
In uno dei passaggi delle nostre Costituzioni che, secondo me, con carità esortano di più si dice: “Il sacerdote dev’essere soprattutto padre, perché genera figli tramite la croce, la preghiera, lo zelo apostolico, la predicazione”.
Si capisce allora che questa paternità spirituale della quale stiamo parlando non è fondata sui legami di carne e di sangue, ma sul vincolo sacro della carità, e perciò stabilisce un’unione più potente, fino al punto che, in quanto alla partecipazione della beatitudine per la carità, “è maggiore l’unione dell’anima del prossimo con la nostra” di quella della nostra anima “con il proprio corpo”. Nonostante ciò, tutta l’attività sacerdotale è simile a quella di un padre terreno che genera, aiuta a crescere ed educa la prole, la protegge e le dà l’alimento necessario in ogni momento.
Con una penna accurata, San Giovanni d’Avila esprimeva questa verità dicendo: “Io non conosco arte, né libro, né parola, né dipinto, né qualcosa di simile che possa portare alla conoscenza dell’amore di Dio verso gli uomini quanto questo premuroso e profondo amore che Egli ha verso i suoi figli, per quanto bizzarri possano essere; e che dico, bizzarri!; amali anche se non vieni ricambiato; cerca la loro vita, anche se cercano la morte; e amali più profondamente nel bene di qualsiasi altro uomo, per quanto indurito e ostinato possa essere contro di noi, non amarli nel male. È più forte Dio del peccato; e per questo mette più amore nei padri spirituali di quanto il peccato possa mettere odio nei cattivi figli. Per questo dobbiamo amare di più quelli che generiamo per il Vangelo di quelli che genera la natura e la carne, perché è più forte la grazia della carne”.
Vorrei soffermarmi qui a considerare il modo di generare “tramite la croce, la preghiera, lo zelo apostolico, la predicazione” di cui le nostre Costituzioni parlano dettagliatamente e del quale il diritto proprio si fa eco in numerose occasioni.
– Tramite la Croce: Cioè, tramite “la croce dell’umiltà della ragione di fronte al mistero; la croce della volontà nel compimento fedele di tutta la legge morale, naturale e rivelata; la croce del proprio dovere, a volte arduo e poco gratificante; la croce della pazienza nella malattia e nelle difficoltà di ogni giorno; la croce dell’impegno instancabile per rispondere alla propria vocazione; e la croce della lotta contro le passioni e le suggestioni del male”. In un “vero olocausto di sé stessi” perché chi vuole essere vero padre “deve morire a sé stesso in tutto affinché il figlio viva”. Esercitando la nostra paternità sacerdotale secondo il modello del Verbo Incarnato, cioè, secondo la sua condizione di servo, che si “manifesta in un accompagnamento sollecito, e allo stesso tempo rispettoso e discreto della crescita della persona”, “consolando e compatendosi delle miserie dei suoi figli come Cristo che per la nostra salvezza prese una natura umana simile a noi in tutto fuorché nel peccato”. “Si tratta di un compito molto delicato e anche faticoso”, ammette il diritto proprio, “che esige preparazione attenta e sensibilità psicologica; comunque, è assolutamente necessaria”.
“A forza di gemiti e offerte di vita, Dio da figli a quelli che sono veri padri, e non una, ma molte volte offrono la loro vita affinché Dio dia vita ai loro figli, come sono soliti fare i genitori carnali”.
– Tramite la preghiera: “Che preghiera così continua e coraggiosa è necessaria verso Dio, pregando per [i figli] perché non muoiano!”. È talmente necessaria questa preghiera che deve anche precedere il tratto con i figli spirituali come il diritto proprio ci insegna magistralmente: “È precisamente la preghiera colei che permetterà di dedicarsi meglio al servizio degli uomini; perché la preghiera permette di scoprire Dio nel prossimo”. Inoltre, ci si raccomanda che “bisogna pregare con loro”. E poiché la nostra paternità sacerdotale implica “essere aperti alle necessità della Chiesa e del mondo, attenti ai più lontani e, soprattutto, ai gruppi non cristiani del proprio ambiente, è nella preghiera e, particolarmente, nel sacrificio eucaristico che esercitiamo quella sollecitudine di tutta la Chiesa per l’umanità intera”.
– Tramite lo zelo apostolico: Ognuno di noi “a somiglianza del Verbo Incarnato e crocifisso deve avere ‘sete di anime’. Dobbiamo amare nei fatti e veramente l’uomo concreto che ha bisogno di beni materiali o spirituali”. Pertanto, “la sete d’anime deve essere fin dallo stesso principio della vita religiosa una dimensione che, gradualmente e con prudenza, si deve concretizzare nella vita del candidato, del novizio e del professo”.
Il diritto proprio ci mette a confronto con questa realtà: “Il numero di coloro che ancora non conoscono Cristo né fanno parte della Chiesa aumenta costantemente”. Perciò risultano così attuali le parole che il Papa Pio XI scrisse ai sacerdoti: “Come potrà un sacerdote, meditando il Vangelo, sentire quel lamento del Buon Pastore: Ho altre pecore che non sono di questo recinto, che io devo accudire, e vedere i campi con il grano già maturo e pronto alla mietitura, senza che si accenda nel suo cuore l’ansia di condurre queste anime al cuore del Buon Pastore, di offrirsi al signore delle messe come operaio infaticabile? Come potrà il sacerdote contemplare tante infelici moltitudini, non solo nei lontani paesi di missione, ma disgraziatamente anche in quelli già cristiani da tanti secoli, che sono come pecore senza pastore, che non senta in sé stesso l’eco profondo di quella divina compassione che tante volte ha commosso il cuore del Figlio di Dio? ”.
Questo “zelo per le anime”, che ci si aspetta da noi e che si ispira alla stessa carità di Cristo si deve dunque tradurre in attenzione, tenerezza, compassione, accoglienza, disponibilità, interesse per i problemi della gente”, etc. In una parola, nel dare la vita per i nostri fratelli, a somiglianza del Verbo Incarnato.
Mi pare importante sottolineare che in questo punto ciò che certamente segnala il Direttorio di Opere di Misericordia per illustrare lo zelo ardente che ci viene chiesto: “Ogni opera di apostolato richiede uomini che si consacrino ad essa totalmente. Anche avendo tutti i mezzi materiali, se non si ha un uomo che si assuma la responsabilità dell’azione, che lo faccia con zelo e che procuri di donare totalmente la sua vita all’opera, difficilmente potrà crescere; ancor meno durare. Ogni opera o collettività ha bisogno di un uomo che sia essa stessa. Un uomo che giorno e notte, lavorando, passeggiando, mangiando, giocando e anche sognando, sia tale opera e nient’altro che quella. Un uomo che da tutto ricavi motivi o pretesti per beneficare la sua opera, per introdurla in nuovi luoghi, per darle nuove attrattive, per scusarla dei suoi difetti, per lodarla nei suoi benefici; un uomo con tanta fede nella sua opera da non sapere cosa significhi stancarsi o annoiarsi, e con tanto amore al suo spirito, che la sua sola presenza sia un baluardo inespugnabile in difesa delle buone tradizioni, e in lotta contro le innovazioni pericolose”.
“Dobbiamo convincerci ogni volta di più che non lavoriamo per cose effimere o passeggere, ma ‘per l’opera più divina fra le divine’, la salvezza eterna delle anime e la resurrezione gloriosa dei corpi”.
– Tramite la predicazione: Praticamente fin dall’inizio le nostre Costituzioni stabiliscono la predicazione come uno dei mezzi propri e più adeguati per conseguire il nostro fine proprio, in ragione del carisma: “In maniera speciale, ci dedicheremo alla predicazione della Parola di Dio” e chiarisce: “in tutte le sue forme”. Sentiamoci interpellati! “Dobbiamo avere impazienza di predicare il Verbo in ogni modo seguendo il consiglio di San Paolo: predica la parola, insisti nel tempo opportuno e inopportuno, riprendi, correggi, esorta…. Non bisogna essere cani muti, incapaci di abbaiare. Bisogna cercare le pecore, impiegare il metodo del dialogo, della testimonianza e della solidarietà, correggere i peccatori, insegnare la dottrina: la fede viene dall’udito, visitare i malati, portare le anime al Sacramento della Riconciliazione”, etc.
Questo compito è talmente importante e ineludibile che il diritto proprio, citando Papa Benedetto XV, non dubita di affermare che: “La predicazione della sapienza cristiana è qualcosa che, per disposizione stessa di Dio, si impiega per continuare l’opera della salvezza eterna degli uomini, motivo per cui si conta fra le cose di maggior peso e importanza della nostra Religione”. Per questo ci si raccomanda vivamente che la nostra predicazione debba essere “accompagnata con la forza persuasiva della testimonianza di vita, coerenza e autenticità”.
2. Educare nella vita spirituale
I Padri capitolari nell’ultimo Capitolo Generale sottolineavano che da noi si richiede “una vera paternità spirituale che accompagni, formi, esorti, e conduca per un cammino di maggiore fedeltà alla grazia”.
Coscienti del fatto che ci è stata data una “potestà spirituale” ordinata a condurre gli uomini alla “maturità cristiana” è necessario, allora, chiederci anche: “E se si prova quest’agonia nel generare… –dice San Giovanni d’Ávila– cosa pensa, padre, che sarà educare?”.
A proposito di questo, le nostre Costituzioni, facendo uso del magnifico scritto del Dottore di Ávila, enumerano le virtù che deve avere chi esercita questa paternità spirituale, sia come superiore rispetto ai sudditi; sia come religioso rispetto alle anime a lui raccomandate: siano i malati in un ospedale, i parrocchiani, i ragazzi del catechismo, le religiose, i membri del Terz’Ordine, i compagni di università, etc. Tali sono:
– Tacere: così necessario per “la costruzione paziente della vita fraterna”. “Si tratta di un impegno ascetico necessario e insostituibile […] È una risposta che necessita di un paziente allenamento e una lotta per superare la semplice spontaneità e la volubilità dei desideri”. “Solo a forza di mutua comprensione e tolleranza è possibile conservare la pace e la speranza fra gli uomini”. Bisogna “saper soffrire in silenzio e dare la vita per le pecore” così come “mostrare maggior condiscendenza verso quelli che camminano con passo più lento e faticoso”.
– Non fare preferenza di persone: “La preferenza di persone è un tipo d’ingiustizia espressamente proibito nella Sacra Scrittura: non farete preferenza di persone, posto che in Dio non c’è preferenza di persone”. Agendo “in modo tale da avere vera cura degli altri, che tutti i membri si preoccupino egualmente gli uni degli altri”. Il Beato Paolo Manna inculcava lo stesso insegnamento ai suoi dicendo loro: “non facciamo discriminazioni, concediamoci il lusso di essere buoni con quelli che sembrano meritarlo di meno, vinci il male con il bene…questo è fare come ha fatto Gesù, sempre, instancabilmente, con noi”.
– Alimentare l’anima: Con il Pane eucaristico, con la Parola di Dio che “è alimento che nutre, guida che conduce, medicina che cura, dolcezza che inebria”e portandoli “alla degna ricezione dei sacramenti”per mezzo dei quali si comunica loro “la grazia divina facendo degli uomini creature nuove vitalmente unite a Cristo e alla Chiesa”, perché non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.
Alimentandoli anche con una sana e solida formazione dottrinale, sapendo mantenere un atteggiamento vigilante sui figli: Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, pur di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo i propri capricci, 4rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole. Teniamo sempre presente che come “padri spirituali, dobbiamo comportarci con i figli, non secondo il beneplacito degli uomini, ma in modo conforme alle esigenze della dottrina e della vita cristiana, insegnando loro e ammonendoli come figli amatissimi, secondo le parole dell’apostolo: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento”. Riguardo a quelli che sono parroci, il diritto proprio stabilisce specialmente che essi “dovranno rappacificarli prendendosi cura di loro e dando loro non solo il pane del corpo ma anche l’alimento dell’anima”, cioè, “con la loro parola ed esempio per alimentarli con un buon pasto: Il pastore cammina avanti e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce”. E avverte i missionari ad gentes: “i poveri hanno fame di Dio, e non solo di pane e libertà; l’attività missionaria deve anzitutto testimoniare e annunciare la salvezza in Cristo”.
– Dimenticarsi di sé stessi: “il padre deve dimenticarsi di sé stesso a beneficio dei suoi figli spirituali”. Questo implica, secondo quanto indica il diritto proprio: “abnegazione di sé, per cui i religiosi ai quali si affida un’opera di carità si dimentichino di sé stessi a beneficio di quelli che la Divina Provvidenza ha voluto affidare loro”; “abnegazione del lavoro proprio: gli stessi religiosi che intraprendono un’opera devono lavorare, e mostrare al mondo che non si è solo patroni o amministratori, ma che la persona stessa è disposta a mettere mano all’opera, che non ha paura di toccare un povero malato, di servire un piatto di cibo, etc.”e, infine, “abnegazione del proprio nome: non lavorare per avere un nome proprio. L’opera è dell’Istituto, di più, appartiene alla Chiesa”. Ricordiamo sempre che “chi si dedica alla cura delle anime, deve sacrificare tutto; disposto a dare tempo ed energia, a rinunciare anche al riposo più legittimo”.
– Dominio di sé stessi: “L’espressione e l’aspetto esterno del sacerdote devono riflettere la pace che alberga nella sua anima. Deve conservare il dominio di sé in ogni circostanza, in ogni azione”. Per questo si sottolinea la gran necessità di “formare adeguatamente la volontà, mediante la pratica costante di tutte le virtù e il dominio delle passioni, in maniera tale che sempre e in tutto si cerchie si scelga solo il bene maggiore”. “L’umore incostante e un cattivo temperamento, invece, allontanano le anime”. È necessario ricordare qui il meraviglioso insegnamento di Don Bosco che prendiamo come proprio: “Mantenetevi fermi nel cercare il bene e impedire il male; siate, comunque, sempre dolci e prudenti. Siate perseveranti e amabili, e vedrete come Dio vi farà padroni perfino dei cuori meno docili…”. Quando Don Bosco fondò un collegio fuori Torino (1863) e mandò Don Michele Rua come direttore gli mise per iscritto “quelle cose che tu stesso hai visto praticare” gli spiega il santo. E in una lettera introduttiva dice: “ricevili come espressione del mio desiderio che siano molte le anime che guadagnerai per il Signore”. Evidenziamo che il nostro diritto proprio non ha dubitato di fare suo questo insegnamento: “la carità e la pazienza ti accompagnino costantemente quando comanderai e quando correggerai, e agisci in maniera tale che tutti comprendano, per i tuoi fatti e le tue parole, che quello che cerchi è il bene delle anime”.
– Sapienza: “alla scuola del Verbo Incarnato impariamo la sapienza divina”. Cioè, la delicatezza del suo amore: li amò fino alla fine; la magnanimità e generosità del suo operare: dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia; in una parola, la follia della Croce, quella che è “più sapiente della sapienza di tutti gli uomini”.“Beati questi pazzi per Cristo! Nessuna sapienza del mondo potrà mai ingannarli”.
– Pazienza: “Cioè: amatevi gli uni gli altri; sopportino con pazienza senza limiti le loro debolezze, tanto corporali quanto spirituali”. Se per tutti e in tutti gli ambiti è necessaria questa virtù, è veramente imprescindibile per quelli che sono formatori: “Il compito di formare altri richiede…serenità interiore, disponibilità, pazienza, comprensione, e un vero affetto verso quelli che gli sono stati affidati”. Si raccomanda molto a quelli che sono padri di anime che “anche qualora abbia molte altre cose da fare, non faccia mai sentire a questo figlio l’inopportunità della sua visita, perché l’anima bisognosa è sensibilissima, basta un solo ricevimento poco accogliente e impaziente, perché questo figlio non venga a ‘importunare’ mai più”. Tutti noi, superiori o no, missionari ad gentes o contemplativi, dobbiamo rivestirci di questa virtù a imitazione del Verbo Incarnato: “sapendo aspettare il momento della grazia”, essendo “pazienti nelle veglie prolungate”dell’arduo lavoro missionario, nel sopportare “con somma pazienza le fiacchezze sia fisiche sia morali”, pazienti nell’“animare paternamente” e “cominciare di nuovo dal principio” se necessario, pazienti “nel sopportare le ingiustizie”, etc.
– Spirito di preghiera: Perché il servizio di carità che implica il compito degnissimo di “generare e allevare figli spirituali” esige che il ‘padre’ stesso “si lasci educare continuamente dallo Spirito nella carità del Signore. Questa carità scaturisce dalla preghiera, dalla contemplazione del mistero della misericordia divina”. Perciò, in ogni momento si sottolinea il ruolo fondamentale della preghiera: “Il missionario dev’essere un ‘contemplativo in azione’ che dia risposta ai problemi alla luce della Parola di Dio mediante la preghiera personale e comunitaria”. Dice inoltre il diritto proprio: “Il ‘centro di ogni pastorale vocazionale’ è la preghiera”. Dunque ci si chiede di pregare non solo perché Dio susciti vocazioni ma come modello di accompagnamento paterno “impetrando da Dio la grazia della perseveranza” e anche se avessero la sfortuna di non perseverare: “preoccupandosi per loro, con la preghiera e con ogni gesto di cui abbiano bisogno e che sia possibile dar loro”.
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Infine, carissimi, e per concludere vorrei citare qui l’esempio di Sant’Alberto Hurtado, sacerdote forgiato nell’arduo lavoro apostolico e di fiammante carità, il quale scrisse con sublime semplicità in che cosa, in fin dei conti, si riassume questo compito di generare e allevare figli spirituali e che è –mi sembra– l’applicazione viva di ciò che abbiamo appena detto. Stimo che, salvando le particolarità alle quali il santo si riferisce in concreto, si possa applicare questo insegnamento a ogni esercizio di paternità sulle anime:
“La prima cosa, amarli: Amare il bene che si trova in essi, la loro semplicità, la loro rudezza, la loro audacia, la loro forza, la loro franchezza, le loro qualità di combattenti, le loro qualità umane, l’allegria, la missione che realizzano di fronte alle loro famiglie… Amarli fino a non poter sopportare le loro disgrazie… Prevenire le cause dei loro disastri, allontanare dalle loro case l’alcolismo, le malattie veneree, la tubercolosi. La mia missione non può essere soltanto consolarli con parole bellissime o lasciandole nella loro miseria, mentre io mangio tranquillamente, e mentre non mi manca nulla. Il loro dolore deve farmi male: la mancanza d’igiene delle loro case, la loro scarsa alimentazione, la mancanza di educazione dei loro figli, la tragedia delle loro figlie: che tutto ciò che li umilia, faccia del male anche a me. Amarli per farli vivere, perché la vita umana si sviluppi in loro, perché si apra la loro intelligenza e non restino arretrati. Che gli errori ancorati nel loro cuore mi interpellino continuamente. Che le menzogne o le illusioni con le quali li inebriano, mi tormentino; che i giornali materialisti con i quali li informano, mi irritino; che i loro pregiudizi mi stimolino a mostrare loro la verità. E questo non è altro che la traduzione della parola amore”.
La paternità spirituale così intesa non è altra cosa che “disporsi a morire, come il chicco di grano, per vedere Cristo in tutte le cose”. Per questo diciamo che “per noi il lavoro pastorale è croce”.
Che ognuno dei nostri cuori si veda sempre pieno dell’inestimabile ricchezza della paternità-maternità spirituale della quale molti dei nostri fratelli e sorelle hanno gran necessità!
Noi non siamo stati chiamati a svolgere il compito di un funzionario del Vangelo, ma ad essere ‘padri’ e ciò esige da noi un amore sempre crescente verso quelli che ci sono stati raccomandati. Di quale amore si tratta? Molto più di quello di un pedagogo; è l’amore di un padre; di più, quello di una madre. Tale è l’amore che il Signore si aspetta da ogni predicatore del Vangelo, da ogni costruttore della Chiesa. Noi dobbiamo custodire nel nostro cuore lo stesso sentimento che annegava il cuore di San Paolo quando diceva: Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari.
Che di ognuno di noi si possa dire che siamo “sacerdoti e religiosi, con animo generoso, che accompagnano e guidano la vita degli uomini senza distinzione d’età o condizione, e quando si stancano o si ammalano attacchino, come eredità, il carro ad altri affinché lo conducano. Così, non raramente avviene che un bambino appena nato sia accolto da mani verginali senza che gli manchi nulla delle attenzioni che nemmeno una madre avrebbe potuto prodigare con maggior amore, e se è grande e ha già raggiunto l’uso della ragione, si dona all’educazione di quelli che lo istruiscono nell’insegnamento della dottrina cristiana, e gli danno la conveniente formazione mentale, e forgiano debitamente il suo ingegno e il suo carattere; se uno si ammala, allora ha chi, spinto dall’amore di Cristo, si sforza con attenzioni sollecite e rimedi convenienti a ristabilire la sua salute; se perde i suoi genitori, se si vede abbattuto per la mancanza di beni temporali o per miserie spirituali, se è in carcere, non gli manca la consolazione né il soccorso, perché i ministri sacri, i religiosi e le vergini consacrate lo guardano compassionevoli come un membro malato del Corpo Mistico di Gesù Cristo […] E che diremo in favore degli araldi della parola divina, che, lontani dalla loro patria e sopportando duri lavori, convertono alla fede cristiana grandi moltitudini d’infedeli? E che dire delle sacre spose di Cristo, che collaborano con loro, prestando loro un aiuto validissimo?”.
A tutti voi che con grande oblio di voi stessi e vero cuore di padri vi dedicate a preoccuparvi degli altri, ad aiutarli, a curarli, a formarli, a guidarli e consolarli vi conceda il Verbo Incarnato per intercessione della sua Santissima Madre una “ubertosa fecondità apostolica e vocazionale”.
Un forte abbraccio a tutti.
Nel Verbo Incarnato,
P. Gustavo Nieto, IVE
Superiore Generale