“Uomini autenticamente liberi”

Roma, Italia, 1 giugno 2018.

Lettera Circolare 23/ 2018

“Uomini autenticamente liberi”

Costituzioni, 200

Cari Padri, Fratelli, Seminaristi e Novizi,

“La libertà in tutte le epoche è stata il gran sogno dell’umanità, fin dagli inizi, ma particolarmente nell’epoca moderna”. Diceva Benedetto XVI ai seminaristi a Roma. E anche se, molto probabilmente, nel secolo XX, la libertà dell’essere umano è stata attaccata come mai era stato fatto, non è minore l’attacco nel secolo presente, anche se forse lo si fa in maniera più subdola. Pensiamo per esempio alla manipolazione biologica, psichica e morale che implica l’ideologia gender, alla schiavitù informatica alla quale ci sottomettono i mezzi di comunicazione, alla libertà al margine della verità –propria del liberalismo–, all’esplosione incontrollata di tutte le dipendenze per l’eclissi dell’etica e della morale, al progressismo, ecc.

Per questo, ed essendo la nostra Famiglia Religiosa nata in questi tempi, il nostro diritto proprio fa sua la denuncia di San Giovanni Paolo II, che già nel 1992 diceva: “Oggi è aumentata grandemente la varietà degli abusi della libertà, e ciò porta a nuove forme di schiavitù molto pericolose, perché sono travestite sotto l’apparenza di libertà. Questo è il paradosso, il dramma profondo del nostro tempo: nel nome della libertà s’impone la schiavitù”. Per la stessa ragione, il nostro Direttorio di Evangelizzazione della Cultura abbonda sul tema.  

Di conseguenza, il problema della libertà è per noi un problema fondamentale –di una trascendenza enorme– che ci preme particolarmente.

Non solo perché c’interessa inserirci nella problematica della cultura moderna, ma perché la libertà cristiana è parte integrante ed elemento imprescindibile dello spirito del nostro Istituto e del modo secondo il quale vogliamo sempre vivere, come chiaramente esprimono le nostre Costituzioni: “Lo Spirito che anima l’Istituto fin dagli inizi… È vivere e far vivere sotto l’azione dello Spirito Santo, senza forzature di nessun tipo, rispettando scrupolosamente le coscienze, promuovendo il sano pluralismo, spingendo a vivere pienamente la libertà dei figli d Dio perché dov’è lo Spirito Santo, lì è la libertà”. 

Libertà che si trova all’origine stessa della nostra vocazione come consacrati dell’Istituto del Verbo Incarnato, perché chi può negare che “ogni vocazione nasce dall’incontro di due libertà: quella divina e quella umana” e che la nostra vocazione ad amare il Verbo Incarnato sopra tutte le cose non è altra cosa che una chiamata alla libertà e alla felicità. Ancora di più: è precisamente per il pieno esercizio della nostra libertà che deliberatamente abbiamo deciso di vincolarci a Dio in amorosa servitù. Per questo la nostra formula di professione dice che: “Io N.N., liberamente, faccio a Dio oblazione di tutto il mio essere”. 

Penso allora che possa essere di molto profitto per le nostre anime tornare su quelle magnifiche parole delle nostre Costituzioni che c’invitano a “vivere pienamente la libertà dei figli di Dio” e a questo tema ho voluto dedicare la presente lettera circolare. 

1. Libertà secondo il nostro diritto proprio

Conformemente allo spirito che anima il nostro Istituto, il tema della libertà è menzionato innumerevoli volte in modo esplicito, così come sono anche manifeste le decisive conseguenze che questa ha nelle sue diverse applicazioni al nostro modo particolare di vivere la nostra consacrazione. Nonostante ciò, considero di particolare rilevanza la citazione che di essa fa il Direttorio di Spiritualità nel suo articolo 4, parlando della vita gloriosa di nostro Signore e specificamente della sua Risurrezione. Noi, “chiamati a vivere come risuscitati” “comprendiamo di essere stati chiamati alla libertà, giacché per godere della libertà, Cristo ci ha fatti liberi”.

Libertà che non nulla a che vedere con quel comportamento che si muove come “copertura della malizia, o come pretesto per servire la carne”. Piuttosto, si tratta di una “libertà autentica [che] s’identifica con la santità, con la Legge Nuova, con la fede cristiana, con la carità, è la libertà… dei figli di Dio. È quella che ha come fondamento la verità, come illustrò Nostro Signore insegnandoci che la verità vi farà liberi. È propria di quelli che si lasciano guidare dallo Spirito Santo: Il Signore è Spirito, e dov’è lo Spirito del Signore è la libertà . Per questo insegna Sant’Agostino: ‘Ama e fà ciò che vuoi’, e San Giovanni della Croce colloca in cima al monte della perfezione: ‘Per di qui non vi è cammino che per il giusto non vi è legge’”.

Questa libertà dei figli di Dio–come spiega chiaramente il Direttorio di Spiritualità– fa sì che “vivendo come risuscitati … [cioè] nella libertà dei figli di Dio, non ci schiavizziamo: né sotto gli elementi del mondo; né sotto la lettera che uccide; né sotto lo spirito del mondo; perché non dobbiamo sottometterci al giogo della schiavitù… (al contrario), Cristo non ci gioverebbe a nulla”.   

Pertanto, la libertà, così come chiaramente la intende il nostro diritto proprio, seguendo il Magistero della Chiesa, “implica ‘costruire una comunione e una partecipazione… su tre piani inseparabili: la relazione dell’uomo con il mondo, come signore; con le persone, come fratelli; e con Dio, come figlio”. Al punto da poter dire che è autenticamente libero chi ha lo spirito di principee che il diritto proprio, con parole ispirate, descrive dicendo: “…Sono quelli che non chiedono libertà ma gerarchia. Sono quelli che s’impongono leggi e le compiono… Sono quelli che sentono l’onore come la vita… Quelli capaci di dare cose che nessuno obbliga e astenersi da quelle che nessuno proibisce”, ecc. Sono “i liberi in Cristo da ogni tipo di schiavitù” e camminano “evitando il peccato e fanno opere meritorie, senza che nessuno abbia il potere d’impedir loro di raggiungere l’ultimo fine”. 

Per di più, seguendo l’insegnamento contundente dell’Aquinate, il diritto proprio afferma: “Libero è chi è causa del suo agire; servo, chi ha per causa del suo agire il suo signore. Pertanto, chi agisce per decisione propria, agisce liberamente; chi lo fa mosso da altri, non agisce liberamente. Così, colui che evita il male, non perché è male, ma perché Dio lo comanda, non è libero; ma chi evita il male perché è male, questo è libero. Questo lo compie lo Spirito Santo, il quale perfeziona interiormente l’anima con l’abito buono, in modo tale che si astiene dal male per amore, come se lo comandasse la legge divina; e pertanto si dice libero, non perché non si sottomette alla legge divina, ma perché s’inclina per i buoni abiti a fare ciò che la legge divina comanda”. Tutto questo porta di conseguenza un’“immensa allegria” e una pace incolume nell’anima, che sono tanto maggiori quanto maggiore è la pienezza della nostra donazione. 

Allora, sorge la clamorosa esortazione: “Dobbiamo essere e dobbiamo saper formare uomini e donne: “Liberi… liberi… liberi… liberi… liberi… liberi con la tua libertà… che vadano da tutte le parti con… il Santo Vangelo sulla bocca e il santo Rosario in mano, ad abbaiare come cani, ad ardere come fiaccole e illuminare le tenebre del mondo come soli”.

Questo è lo spirito di libertà che arde nei nostri cuori e che vogliamo accendere in maniera incontenibile negli altri. Perché come diceva il Ven. Arcivescovo Fulton Sheen: “La libertà è nostra per darla ad altri”. Così, i nostri missionari, lasciando “totalmente e liberamente il destino di sé stessi ai Superiori” ed esercitando “un dominio su tutte le cose, insieme a una volontà liberissima, pronta per gradire solo a Dio”, marciano per inastare la bandiera del Verbo Incarnato in quelle terre dove nessuno vuole andare e non temono di “dar fuoco alle loro navi quando sbarcano”. È questa stessa libertà che predicano alle anime, convinti che “non può esistere una vera evangelizzazione senza che si proponga tutta la verità su Gesù Cristo, sulla Chiesa e sull’uomo; perché non esiste un’autentica salvezza e libertà senza la logica del Vangelo, proclamato e vissuto in tutta la sua integrità”. Perché, in definitiva, a questo ci manda il Signore: a dare la Buona Novella ai poveri, ad annunciare ai prigionieri la liberazione. Allo stesso tempo, “liberamente –per propria convinzione–”, con amore e coraggio, “con pietosa sottomissione e rispetto”, sanno di essere soggetti ai superiori legittimi, gioiosamente aderiscono in pienezza alla disciplina dell’Istituto ed esercitano il loro apostolato con “autentica spiritualità ecclesiale”cioè, “in unione ai legittimi Pastori, specialissimamente con un’adesione cordiale al Vescovo di Roma”, moltiplicando progetti entusiasti perché sempre più anime giungano alla conoscenza della verità che ci fa liberi. Perché si dica di noi ciò che Sant’Ireneo diceva dei primi messaggeri del Vangelo: “Furono predicatori della verità e apostoli della libertà”.

Perciò, nel punto seguente di questa lettera devo sviluppare la prima parte di questa affermazione: “Dobbiamo essere … liberi”. 

2. Essere liberi in Cristo da ogni tipo di schiavitù 

San Giovanni Paolo Magno, nella sua prima lettera enciclica ha scritto: “Umanità matura significa pieno uso del dono della libertà, che abbiamo ottenuto dal Creatore, nel momento in cui Egli ha chiamato all’esistenza l’uomo fatto a sua immagine e somiglianza. Questo dono trova la sua piena realizzazione nel dono, senza riserve, di tutta la persona umana concreta, in spirito d’amore sponsale a Cristo e, attraverso Cristo, a tutti coloro dai quali Egli manda, uomini o donne, che si sono consacrati totalmente a Lui secondo i consigli evangelici”. 

Pertanto, “i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza, vissuti da Cristo e abbracciati dal suo amore, appaiono come un cammino per la piena realizzazione della persona in opposizione alla disumanizzazione; proclamano la libertà dei figli di Dio e la gioia di vivere secondo le beatitudini evangeliche”. Allora, lungi dall’essere una rinuncia che impoverisce, piuttosto ci arricchiscono perché ci liberano “dagli impedimenti che potrebbero allontanarci dal fervore della carità e dalla perfezione del culto divino, consacrandoci più intimamente al servizio di Dio” per arrivare a possedere Dio intimamente e pienamente. 

Detto in altro modo: i voti di povertà, castità e obbedienza “non alienano la nostra libertà” –come alcuni falsi fratelli sostengono, intromettendosi per spiare la nostra libertà che abbiamo in Cristo Gesù ; e nemmeno “ostacolano né limitano la nostra personalità, ma piuttosto la liberano con la possibilità di un dono più costante e più generoso nel servizio quotidiano a Dio e ai fratelli”. Di conseguenza, lungi dal minare la nostra dignità, la conducono alla maturità e portano alla pienezza tutto il nostro potenziale.

Sì, l’appartenenza totale al Verbo Incarnato ci fa gioiosamente liberi. E noi, liberamente, abbiamo voluto appartenergli, facendo oblazione di tutto il nostro essere mediante la pratica dei consigli evangelici secondo il “cammino evangelico tracciato nelle Costituzioni dell’Istituto del Verbo Incarnato”, perché siamo convinti che, come dice il Mistico Dottore, “i beni immensi di Dio non si adattano e non penetrano se non in un cuore svuotato e solitario”.

  • Castità e libertà

In questo modo, per il voto di castità “liberamente abbiamo scelto di essere degli eunuchi che si sono resi tali per il regno dei cieli ”, al fine di avere “Cristo come Sposo esclusivo dell’anima”. Noi sacrifichiamo gioiosamente i nostri affetti carnali al fine di “essere totalmente liberi di tendere a Dio” e a Lui vogliamo ordinare tutti i nostri amori. 

Così, la pratica di questo voto ci conferisce una grande libertà affettiva e ci “libera da molte preoccupazioni che renderebbero impossibile la consacrazione di tutte le nostre forze al bene del prossimo”. Se no, come potrebbero i nostri religiosi attendere con tanta amorosa dedizione ai bambini, giovani e anziani delle nove case di carità che ha l’Istituto, o come potrebbero i nostri monaci nascondersi al mondo per offrire a Dio non solo le loro preghiere e suppliche, ma la loro immolazione, o come potrebbero i nostri missionari sopportare le grandi difficoltà e fatiche del pellegrinaggio missionario per gli immensi orizzonti del mondo non cristiano, se dovessero attendere alle necessità corporali e spirituali di una famiglia? Ma soprattutto, come potremmo amare Gesù Cristo con un cuore indiviso? chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie

Per questo, il voto di castità ci fa liberi: “liberi di occuparci generosamente delle opere di carità”; di più, “per esercitare verso il prossimo una carità perfetta”; ma soprattutto, liberi di amare Cristo con un cuore indiviso.

  • Povertà e libertà

Da parte sua, il voto di povertà “liberamente scelta” e che per noi “implica una vita povera di fatto e di spirito, coraggiosamente sobria e distaccata dalle ricchezze terrene, e porta con sé la dipendenza nell’usare e nel disporre di beni”, ci libera dai condizionamenti terreni “per amare meglio e più radicalmente Cristo povero”. 

Grazie alla pratica cosciente ed effettiva del voto di povertà, la nostra vita “diventa un culto incessante alla divina Provvidenza, perché si ha la certezza che ‘il pericolo corporale non minaccia quelli che, con l’intenzione di seguire Cristo, abbandonano tutte le loro cose, affidandosi alla divina Provvidenza’”. 

Un religioso che segue “nudo il Cristo nudo” diventa un testimone autentico della libertà interiore e interpella gli altri uomini, facendo loro riconoscere, in lui, lo spirito del Verbo Incarnato. “In una civiltà e in un mondo, il cui tratto distintivo è un prodigioso movimento di crescita materiale quasi indefinito, quale testimonianza offrirebbe un religioso che si lasciasse rapire da una ricerca sfrenata delle proprie comodità e trovasse normale concedersi, senza discernimento né discrezione, tutto ciò che gli viene proposto?”, sono parole del Beato Papa Paolo VI.

Per questo, San Giovanni della Croce raccomandava a una priora: “Badi che conservino lo spirito di povertà e disprezzo di tutto –altrimenti, sappiate che cadranno in migliaia di necessità spirituali e temporali– volendosi accontentare solo di Dio. E sappia che non avranno né sentiranno più necessità che a quelle a cui vorranno assoggettare il cuore; perché il povero di spirito nelle privazioni è più costante e allegro, perché ha posto il suo tutto in niente di niente, e così trova in tutto larghezza di cuore”. 

A noi spetta dunque “conquistare il distacco totale, non solo dai beni materiali –oggetto proprio della virtù della povertà– ma di tutto ciò che non sia lo stesso Dio”. È “amare tutto ciò che Dio vuole che amiamo, senza essere schiavi dei nostri affetti alle creature, cioè, amare senza incatenarci, possedere senza restare prigionieri, usare senza godimenti egoisti, conservare la completa indipendenza, cercare in tutto e per tutto la gloria di Dio”. 

  • Obbedienza e libertà

Infine, rispetto al voto di obbedienza dobbiamo dire in tutta verità che nulla ci rende più liberi che l’esercizio costante e radicale di questo voto per amore a Dio e al prossimo. Perché, come Voi sapete bene, questo “voto offre a Dio il bene più eccellente, che è la propria volontà, contiene gli altri voti, che si realizzano per obbedienza, e si riferisce propriamente agli atti che più si riferiscono al fine della vita religiosa, posto che nessuno è religioso senza questo voto, anche se ha professato gli altri”. 

San Tommaso vede nell’obbedienza religiosa la forma più perfetta dell’imitazione del Verbo Incarnato, che si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo l’obbedienza occupa il primo posto nell’olocausto della professione religiosa. In tal modo, il voto di obbedienza diventa per noi un mezzo adattissimo per vincere “l’attaccamento alla propria volontà” e per unirci costantemente e in pienezza alla volontà salvifica di Cristo. Infatti ci impegniamo concretamente a imitare il Verbo Incarnato che imparò l’obbedienza da ciò che patì.

Seguendo questa solida e magnifica tradizione cristiana, per il voto di obbedienza ci impegniamo in maniera specifica “a obbedire in tutto ciò che si riferisce alla vita religiosa e apostolica al Superiore” imitando Cristo che obbedì all’autorità umana, e vedendo in quest’autorità un segno della volontà divina: “i Superiori legittimi fanno le veci di Dio quando comandano qualcosa secondo le Costituzioni”, affermano il diritto canonico e il nostro diritto proprio. È così che ci facciamo docili allo Spirito Santo e pronti a tutto ciò che Dio disponga: Vi preghiamo, fratelli, di avere riguardo per quelli che faticano tra voi, che vi fanno da guida nel Signore e vi ammoniscono; trattateli con molto rispetto e amore, a motivo del loro lavoro

È affascinante costatare la paterna condiscendenza del nostro diritto proprio quando ci ricorda, seguendo il Dottore Angelico, “quanto è difficile il bene dell’obbedienza. Perché quelli che non sono esperti nell’obbedienza, e non l’hanno imparata nelle cose più difficili, credono che obbedire sia molto facile. Però, per sapere cosa sia l’obbedienza, è necessario imparare ad obbedire nelle cose più difficili, e chi non impara obbedendo a stare sottomesso, mai saprà comandare bene quando dovrà comandare”. Lo stesso insegnava San Giovanni Bosco ai suoi: “se vogliamo imparare a comandare, impariamo prima a obbedire”. 

In effetti, da noi si richiede non solo un’obbedienza di esecuzione e di volontà, ma anche di aspirare all’obbedienza di giudizio, per la quale dobbiamo conformare il giudizio interiore con quello del superiore. In tal senso, il voto di obbedienza fa sì che “per motivi soprannaturali e senza violentare la natura delle cose, il proprio giudizio si accomodi a quello del superiore”. 

Conviene sempre ricordare che la nostra obbedienza non è semplicemente una sottomissione a una autorità umana. Infatti, chi obbedisce si sottomette a Dio, alla volontà divina espressa nella volontà dei superiori. È una questione di fede. Dobbiamo credere che Dio ci comunica la sua volontà mediante i superiori: “nel Superiore, il religioso deve vedere colui che fa le veci di Gesù Cristo”. Anche in quei casi in cui i difetti dei superiori sono più vistosi; perché la loro volontà, se non è “contraria alle leggi di Dio, alle Costituzioni dell’Istituto, e non implica un male grave e certo”, esprime qui e ora la volontà divina. 

È molto consolante leggere la magistrale cautela di San Giovanni della Croce, che le Costituzioni riprendono come propria, per chiarire il compimento radicale e convinto di questo voto: “Non guardare mai il superiore meno che come Dio, qualunque sia questo superiore, poiché fa le sue veci. E fa attenzione, che il demonio qui mette molto la sua mano. Considerando così il superiore avrai grande frutto e profitto, altrimenti, gran perdita e danno. E così con grande vigilanza bada di non guardare la sua condizione, né il suo modo, né il suo aspetto, né altri suoi modi di agire; perché ti farà tanto danno, da arrivare a cambiare l’obbedienza da divina a umana, muovendoti o non muovendoti solo per i modi visibili del superiore, e non per Dio invisibile, che servi in lui… se non fai questo con forza, in modo tale che non t’importi che sia superiore uno o l’altro, per ciò che tocca la tua particolare sensibilità, in nessuna maniera potrai essere spirituale né osservare bene i tuoi voti”. Quanti, anche dei nostri, si sono persi per aver ignorato questi santi consigli! 

Lungi da noi l’“obbedienza critica’, che obbedisce fra la mormorazione e il lamento, e lo ‘spirito di opposizione’, che forma gruppi o bande di opposizione a quanto ordina il superiore, come nel servilismo e nell’obbedienza farisaica, che con un misto di codardia e ipocrisia, mostra una volontà vinta ma non sottomessa, e anche pretendendo di portare il superiore a ciò che si cerca”. A noi spetta “imparare a vivere liberamente il voto di obbedienza e non cadere mai nella dialettica distruttiva di opporre libertà a obbedienza o libertà ad autorità o viceversa”.

  • Obbedienza, libertà e coscienza

È certo che, a volte, l’obbedienza può risultare particolarmente difficile. Però è anche certo che salvo nei casi in cui obbedire sarebbe immorale, mai si dovrà opporre l’obbedienza ai superiori legittimi alla propria coscienza. Per questo mi permetto di citare interamente alcuni paragrafi del documento Il servizio dell’autorità e l’obbedienza della Congregazione per gli Istituti d Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica (nn. 26-27): 

“Nello sviluppo concreto della missione, l’obbedienza può risultare, occasionalmente, particolarmente difficile, giacché le prospettive e le modalità di azione apostolica o diaconale possono essere percepite e pensate in maniera differente. In tali occasioni, quando l’obbedienza si fa difficile, e anche «assurda» in apparenza, può sorgere la tentazione della sfiducia e anche dell’abbandono: vale la pena continuare? Non posso realizzare meglio le mie idee in un altro contesto? Perché consumarsi in contrasti sterili? 

San Benedetto già si poneva la questione di un’obbedienza «molto gravosa o anche impossibile da compiere»; e san Francesco di Assisi considerava il caso in cui «il suddito vede cose migliori e più utili alla sua anima di quelle che gli ordina il prelato [il superiore]». Il Padre del monachesimo risponde cercando un dialogo libero, aperto, umile e fiducioso tra monaco e abate; anche se, alla fine, se gli è richiesto, il monaco «obbedisca per carità, confidando nell’aiuto di Dio». Il Santo d’Assisi, da parte sua, invita a compiere una «obbedienza caritatevole», nella quale il frate sacrifica volontariamente i suoi punti di vista compiendo l’ordine dato, perché in tal modo «obbedisce a Dio e al prossimo». E vede una «obbedienza perfetta» quando, non potendo obbedire perché gli viene comandato «qualcosa che è contro la sua anima», il religioso non rompe l’unità con il superiore e la comunità, disposto anche a sopportare persecuzioni a causa di ciò. Di fatto -osserva san Francesco- «chi preferisce patire la persecuzione anziché separarsi dai suoi fratelli, si mantiene veramente nella perfetta obbedienza, perché dona la sua anima per i fratelli». Così, ci ricorda che l’amore e la comunione rappresentano valori supremi, ai quali anche l’autorità e l’obbedienza sono subordinate.

Si deve riconoscere, da una parte, che è comprensibile un certo attaccamento a idee e convinzioni personali, che sono frutto della riflessione o dell’esperienza e si sono maturate nel tempo; e che è cosa buona cercare di difenderle e portarle avanti, sempre nella prospettiva del Regno, in un dialogo aperto e costruttivo. Però non bisogna dimenticare, d’altra parte, che il modello è sempre Gesù di Nazareth, che nella Passione chiese a Dio di compiere la sua volontà di Padre, senza retrocedere di fronte alla morte di croce (cfr. Eb 5, 7-9).

Quando si chiede alla persona consacrata di rinunciare alle sue idee e progetti, essa può sperimentare sconforto e sensazione di rifiuto dell’autorità, o avvertire nel suo intimo «forti grida e lacrime» (Eb 5, 7) e la supplica che passi quell’amaro calice. Ma quello è il momento giusto per affidarsi al Padre affinché si compia la sua volontà e poter così partecipare attivamente, con tutto il proprio essere, alla missione di Cristo «per la vita del mondo» (Gv 6, 51). 

Pronunciando questi difficili «si», si può capire a fondo il senso dell’obbedienza come supremo atto di libertà, espresso in un totale e fiducioso abbandono di sé a Cristo, Figlio che liberamente obbedisce al Padre. Si potrà capire ugualmente il senso della missione come offerta obbediente di se stessi, che attira la benedizione dell’Altissimo: «Io ti colmerò di benedizioni… (E) si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gn 22, 17.18). In questa benedizione, la persona consacrata obbediente sa che recupererà tutto ciò che ha lasciato con il sacrificio del suo distacco; in questa benedizione si cela anche la piena realizzazione della sua stessa umanità (cfr. Gv 12, 25).

A questo punto, può sorgere una domanda: possono esserci situazioni in cui la coscienza personale sembri non permettere di seguire le indicazioni date dall’autorità? O, in altro modo, può succedere che il consacrato si veda obbligato a dichiarare, rispetto alle norme o ai propri superiori: «Bisogna obbedire a Dio prima che agli uomini» (At 5, 29)? Sarebbe il caso della cosiddetta obiezione di coscienza, della quale ha parlato Paolo VI, e che si deve intendere nel suo significato autentico.

Se è vero che la coscienza è l’ambito nel quale risuona la voce di Dio che ci indica come comportarci, non è meno necessario imparare ad ascoltare questa voce con grande attenzione, per saperla riconoscere e distinguerla dalle altre voci. In effetti, non si deve confondere questa voce con altre che sorgono da un soggettivismo che ignora o trascura le fonti e i criteri irrinunciabili e vincolanti nella formazione del giudizio di coscienza: «il «cuore» convertito al Signore e all’amore del bene è la fonte dei giudizi «veri» della coscienza», e «la libertà della coscienza non è mai libertà «rispetto» alla verità, ma sempre e solo «nella» verità».

Di conseguenza, la persona consacrata dovrà riflettere con calma prima di concludere che la volontà di Dio le esprime, più che il comando ricevuto, ciò che lei sente nel suo interiore. E dovrà ricordare che la legge della mediazione è vigente in tutti i casi, astenendosi dal prendere decisioni gravi senza confronto o approvazione alcuna. Non si discute, certamente, che ciò che importa è arrivare a conoscere e compiere la volontà di Dio; ma dovrebbe essere ugualmente indiscutibile che la persona consacrata si è impegnata con voto a captare questa santa volontà attraverso determinate mediazioni. Affermare che ciò che conta è la volontà di Dio e non le mediazioni, e rifiutarle o accettarle solo se conviene, può togliere il significato al voto e svuotare la propria vita di una delle sue caratteristiche essenziali.

Di conseguenza, «fatta eccezione di un comando che fosse manifestamente contrario alle leggi di Dio o alle costituzioni dell’Istituto, o che implicasse un male grave e certo –nel cui caso l’obbligo di obbedire non esiste-, le decisioni del superiore si riferiscono a un campo in cui il valore del bene migliore può variare secondo i punti di vista. Voler concludere, per il fatto che un comando dato appaia oggettivamente meno buono, che è illegittimo e contrario alla coscienza, vorrebbe dire ignorare, in maniera poco reale, l’oscurità e l’ambiguità di non poche realtà umane. Inoltre, rifiutare l’obbedienza implica un danno, a volte grave, per il bene comune. Un religioso non dovrebbe ammettere facilmente che ci sia contraddizione fra il giudizio della sua coscienza e quello del superiore. Tale situazione eccezionale comporterà alcune volte un’autentica sofferenza interiore, secondo l’esempio di Cristo stesso «che imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5, 8)»”. Fin qui la citazione del documento della CIVCSVA.

Per tutto questo, non ha nulla a che vedere con il voto di obbedienza di un membro dell’Istituto del Verbo Incarnato, la condotta di quei falsi fratelli che agendo “in modo apparentemente ‘ragionevole’, si mettono contro i loro superiori, con lamenti, mormorazioni e opposizioni, per continuare a vivere secondo la loro volontà disordinata”. Perché questa è una mancanza di obbedienza che porta all’afflizione, alla mancanza di tranquillità, a sentire pesante la vita religiosa e non poche volte all’infedeltà e all’abbandono della stessa vita religiosa; perché si attacca l’essenza stessa della vita religiosa in uno dei suoi voti, che tra l’altro è il più importante di tutti; ma ancor più, perché attacca la sua stessa finalità che dà senso a tutto il resto: la carità. 

Al contrario, “se voi compirete l’obbedienza nel modo indicato –dice il diritto proprio citando San Giovanni Bosco– vi posso assicurare, nel nome del Signore, che passerete nella congregazione una vita tranquilla e felice”.

Per questo possiamo dire che il voto di obbedienza ci libera “anche in certo senso dalla preoccupazione e dall’insicurezza nel condurre la propria vita in relazione a Dio”, come dice l’Apostolo: Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano su di voi . E che inoltre questo voto ci “porta alla maturità umana. [giacché] ‘lungi dal minare la nostra dignità, la porta alla maturità, facendoci crescere nella libertà dei figli di Dio’. Essendo ‘una particolare espressione della libertà interiore’. Come Cristo affermò: Io do la mia vita… nessuno me la toglie, sono Io che la do da me stesso”. 

Non è mancato, nella storia della vita consacrata, e del nostro stesso Istituto negli anni passati, chi ha considerato l’obbedienza come un “male necessario” dentro la vita religiosa. Come pensando che, per il fatto di essere molti, qualcuno deve “organizzare”. In questa concezione si considera che di fatto l’obbedienza è un male, in quanto violenta la libertà delle persone e in molti casi impedisce la loro realizzazione personale. Con ciò abbiamo già mostrato che questa tesi è insostenibile, e le manca totalmente la considerazione teologica del voto di obbedienza e la considerazione della stessa vita consacrata come uno “spazio teologale”, secondo la felice espressione di San Giovanni Paolo II. Lo stesso Santo Pontefice insegnava che questo tipo di comportamenti può provenire “da quelle concezioni di libertà che, in questa fondamentale prerogativa umana, prescindono dalla sua relazione costitutiva con la verità e con la norma morale”. E continuava a insegnare che “la obbedienza che caratterizza la vita consacrata… rende presente in modo particolarmente vivo la obbedienza di Cristo al Padre e, precisamente basandosi su questo mistero, testimonia che non vi è contraddizione fra obbedienza e libertà. In effetti, l’attitudine del Figlio svela il mistero della libertà umana come cammino d’obbedienza alla volontà del Padre, e il mistero dell’obbedienza come cammino per acquisire progressivamente la vera libertà. Questo è ciò che vuole esprimere la persona consacrata in maniera specifica con questo voto, con il quale si propone di testimoniare la coscienza di una relazione filiale, che desidera assumere la volontà del padre come suo alimento quotidiano (cfr. Gv 4, 34), come sua roccia, sua allegria, suo scudo e baluardo (cfr. Sal 18/17, 3). Dimostra così di crescere la piena verità di se stessa restando unita alla fonte della sua esistenza e offrendo il messaggio consolatore: Molta è la pace per chi ama la tua legge, non vi è inciampo per loro (Sal 119/118, 165)”. 

È dunque l’esempio di Cristo, di cui siamo chiamati a imitare il modo di vita, ciò che spinge ad abbracciare l’obbedienza. Opporre obbedienza a libertà è considerare che lo stesso Cristo non fu libero. Perché di Lui, la Scrittura esalta propriamente la sua obbedienza al Padre, la cui volontà era suo alimento, la cui preghiera fu dal momento del suo ingresso in questo mondo (nell’Incarnazione) fino alla sua passione: Padre, si compia la tua e non la mia volontànon come voglio io, ma come vuoi tu. Fu Lui che si fece obbediente fino alla morte, e alla morte di croce, e che Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì, e che fu ascoltato precisamente per il suo pieno abbandono, cioè, per la sua umile sottomissione. Ebbene, questo stesso Signore, del quale si loda tanto l’obbedienza, fu sommamente libero, augustamente libero, incommensurabilmente libero: Io do la mia vita… nessuno me la toglie, sono io che la do da me stesso. Io ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. E nella sua obbedienza al disegno salvatore del Padre, non disdegnò, ma volle sottomettersi anche a mediazioni umane, come al suo padre terreno e a sua Madre: stava loro sottomesso. Si fece Come una pecora condotta al macello , e si consegnò volontariamente in mano ai peccatori, come Egli stesso aveva annunciato: a Erode, a Pilato, al tribunale del Sinedrio, ai soldati romani. Non era forse venuto a riparare la nostra disobbedienza? Non ci salvò forse in questo modo? Non è questo comportamento ciò che vogliamo imitare quando, professando i voti religiosi liberamente, vogliamo imitare il modo di vita che Egli scelse per se stesso e al quale associò gli Apostoli?. 

Per ciò che è stato detto fino a qui, possiamo dire che “le rinunce, reali e notevoli, che esigono i voti non producono in noi un effetto spersonalizzante, ma sono destinati a perfezionare la nostra vita, come frutto di una grazia soprannaturale che risponde alle aspirazioni più nobili e profonde del nostro cuore. È in questo senso che San Tommaso parla di spiritualis libertas e di augmentum spirituale: libertà e crescita dello spirito”. E i voti nemmeno violentano o frustrano la nostra libertà, piuttosto siamo convinti che la nostra libertà viene elevata, si fa più genuina, più profonda, più piena e ci porta a una comunione molto maggiore con Dio e con il prossimo. Nutriti di questa libertà dei figli di Dio ci lanciamo nella meravigliosa avventura della donazione totale agli ideali del Vangelo, alla Persona di Cristo, alla Chiesa e alla missione. “E per farlo meglio facciamo un quarto voto di consacrazione a Maria in materna schiavitù d’amore”.

Infine, la libertà con la L maiuscola la dà precisamente la pratica autentica dei voti religiosi. È così che raggiungiamo la pienezza e il massimo dominio: quanto più esattamente compiamo la volontà di Dio. Opporsi a ciò è opera distintiva del demonio, invidioso della perfezione dell’uomo, che suscita “ciarlatani e maestri di seduzione”, come afferma energicamente San Tommaso.

3. Formare uomini autenticamente liberi

Dopo aver detto ciò, sorge naturalmente l’impeto incontenibile di voler “formare uomini autenticamente liberi, padroni di se stessi, che per il fatto di dominarsi, possano donarsi totalmente”. 

In questo senso, il diritto proprio dedica molti paragrafi a designare ciò che s’intende per formare un “uomo autenticamente libero” secondo lo spirito che anima il nostro Istituto, e i mezzi di cui disponiamo a tal fine. 

Le nostre Costituzioni definiscono esplicitamente l’essere uomini autenticamente liberi dicendo: “Liberi, [cioè] che facciano tutto per amore. Che facciano il bene anche se nessuno li guarda, né veglia su di loro il Superiore, né per ricevere lodi o premi. Che non siano ossequiosi con i Superiori, cercando di ottenere vantaggi. Che sappiano fare una correzione fraterna, senza che gli importi ciò che pensano di lui. Che comprendano con Santa Teresa di Gesù, che ‘tutto è nulla e finisce in breve’”.

E il Direttorio di Seminari Maggiori precisa: “Vogliamo formare seminaristi che vivano il ‘dominio’, su sé stessi, sugli uomini, sul mondo e sul demonio; che godano della ‘libertà’ dei figli di Dio nella piena docilità allo Spirito Santo, essendo convinti che tutto è vostro; Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro!  Ma voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio; che abbiano ‘spirito di principi’ e siano nobili; che siano valorosi e siano totalmente decisi a raggiungere la santità; che superino le tentazioni proprie dello stato sacerdotale […] Seminaristi che ammirino e amino la verità, grazie a un’ampia formazione intellettuale; che dedichino tempo alla teoria e all’ozio intellettuale, e che sia una vera ricerca della verità, cioè che arrivino a conoscerla con certezza e a farla propria nella contemplazione; che abbiano un’intelligenza che si applichi alle cose temporali in subordinazione al pensiero delle realtà eterne, in modo che le une servano a conoscere le altre […] Abituati alla disciplina, cioè, ‘la sottomissione alle regole di vita perché la verità s’incarni nella vita dei discepoli’, che siano uomini virtuosi secondo la dottrina dei ‘grandi maestri di vita spirituale’ […] Seminaristi che sappiano dare valore a ogni cosa e in modo gerarchico; che amino l’istituto vivendo il carisma proprio […] Seminaristi con anima d’artista […]Vogliamo formare, soprattutto, seminaristi che siano disposti alla ‘donazione totale al servizio di Dio e al ministero pastorale’, anche fino al martirio, […] Vogliamo formare i nostri futuri sacerdoti affinché ‘siano poeti, metafisici e soldati, che cantino, contemplino e combattano’. 

Per questo, disponiamo di numerosi mezzi per la formazione umana, intellettuale, spirituale e pastorale di tutti i candidati. Poiché “insieme all’educazione dell’intelligenza, è necessario formare adeguatamente la volontà, mediante la pratica costante di tutte le virtù e il dominio delle passioni, in maniera tale che sempre e in tutto si cerchi e si scelga solo il bene migliore”, perché così si è veramente liberi. 

Ma non si tratta solo di formare uomini ma formare nella libertà. Così stabilisce il diritto proprio, seguendo le indicazioni del Magistero ecclesiastico: “È necessaria la formazione in ordine a una libertà responsabile unita all’educazione della coscienza morale; per dare ‘una risposta cosciente e libera –e, pertanto, per amore– alle esigenze di Dio e del suo amore’”. Giacché, in definitiva, “l’uomo si può convertire al bene solo nella libertà”. 

E in questo compito svolge un ruolo chiave l’importantissima e delicata missione di coloro che si impegnano come formatori dei nostri membri, perché da essi “dipende principalmente la formazione degli alunni”. Perché “non si guadagna assolutamente nulla avendo ‘cloni’. Formare ‘in serie’ è una disgrazia, una mancanza di rispetto alla dignità dell’essere umano ed è una mancanza di rispetto alla dignità che devono avere ogni religioso e ogni religiosa. È preferibile che ci sia pure un certo disordine, anziché attentare contro la libertà”. E pertanto si deve promuovere al massimo –come abbiamo sempre cercato di fare– il rispetto alla libertà e alla coscienza tanto degli uni quanto degli altri in tutto ciò che è legittimo: “rispettare ciò che è specifico di ognuno e il suo contributo alla comunità: alcuni come superiori e altri come alunni”. 

Questa formazione alla libertà implica certamente l’educazione secondo i voti religiosi, come si è detto prima, nella quale “il seminarista è protagonista necessario e insostituibile della sua formazione” “precisamente per mezzo della docilità […] che include necessariamente ‘accogliere le mediazioni umane delle quali lo Spirito Santo si serve’. Questa docilità non si oppone alla dovuta libertà, ma propriamente, nella docile accoglienza dell’azione educativa dei formatori, si mostra e perfeziona in modo radicale”.

Dobbiamo tener sempre presente che “ciò che ognuno non fa, non lo può fare nessun altro, nemmeno Dio stesso, perché Dio non fa santo nessuno contro la sua volontà. In tal senso può arrivare a affermarsi la necessità di una corretta ‘autoformazione’, cioè, dell’uso responsabile di una libertà che presta una ‘collaborazione personale, convinta e cordiale’ all’azione dello Spirito Santo e dei diversi formatori”. I nostri seminaristi “devono imparare imprescindibilmente a governarsi da se stessi, come lo esige la naturalezza della virtù… Questo è il fine e il culmine di ogni vera educazione”.  

Per questa ragione si deve “incoraggiare, come il miglior mezzo per educare in questo agire libero, la partecipazione di tutti”, partecipazione che dev’essere responsabile e con chiare attitudini di disponibilità a un impegno diligente e generoso. È così che si otterrà un impegno maggiore e più profondo di tutti essendo attivi nel processo di formazione e non oggetti meramente passivi, il che equivarrebbe a non formarsi in nessun modo.

È nostro dovere, e sempre lo è stato, sforzarci di raggiungere veramente questa libertà, questa libertà vera che è una libertà costosa, è una libertà che implica sacrificio, una libertà che implica rinuncia, ma nella quale si trova il vero amore. Al contrario, l’anima non potrà raggiungere l’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, che è la santità, come illustra chiaramente il Santo di Fontiveros: “Poco importa che un uccello sia legato a un filo sottile o grosso; anche se sottile, finché sarà legato, è come se fosse grosso, perché non gli consentirà di volare. È vero che è più facile spezzare il filo sottile; ma anche se facile, finché non lo spezza, non vola. Così accade all’anima che è attaccata a qualcosa: anche se possiede molte virtù, non arriverà mai alla libertà dell’unione divina.”.

Allora, carissimi, per concludere: non conformiamoci con una libertà falsa o smorzata, ma eroica e piena. Non siamo liberi solo perché possiamo fare ciò che ci piace, o ciò che ci permettono i pochi o molti mezzi dei quali possiamo disporre. Non siamo liberi in assoluto quando ‘ci realizziamo’ a scapito e danno degli altri. Non siamo più liberi per avere più opzioni. E nemmeno siamo più liberi quando agiamo come se non conoscessimo altro magistero che il giudizio proprio, né altra legge che la volontà propria. Non siamo totalmente liberi quando non siamo pienamente disponibili alla missione o a ciò a cui ci spingono i nostri superiori. Non siamo liberi quando non siamo docili alla disciplina di Cristo e non ci lasciamo dominare da Lui. Perché tutto ciò dimostra che il nostro cuore non è svuotato affinché Dio lo riempia della sua ineffabile gioia. Pertanto: “Dio ci liberi da così brutti impacci, che impediscono così dolci e gustose libertà!”.

Che il “sì” della Santissima Vergine per mezzo del quale Lei si fece schiava sia il modello secondo il quale configurare la nostra vita a quella del Verbo, che si fece carne nel suo seno purissimo. 

Un grande abbraccio a tutti.

Nel Verbo Incarnato, 

P. Gustavo Nieto, IVE

Superiore Generale

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